Tante idee buone e gustose senza prodotti di origine animale, da consumare a gennaio, ma anche tutto l'inverno, perché no?
Negli Usa ci sono stati 335mila casi di Covid-19 fra i dipendenti dei mattatoi e le città che li ospitano hanno tassi di contagiosità più alti anche del 400% rispetto alle altre
C’è un nuovo studio, pubblicato a inizio maggio su Food Policy e leggibile sulla piattaforma ScienceDirect, che conferma che la produzione della carne (e in generale del cibo di derivazione animale) dovrà cambiare, e dunque anche rallentare e ridursi, perché mette a rischio le persone che se ne occupano: dimostra che il contagio da coronavirus ha colpito tantissimo negli impianti di macellazione negli Stati Uniti, con quasi 335mila casi di Covid-19 fra i dipendenti dei mattatoi (centinaia con esito mortale) e un costo economico e sociale stimato in oltre 11 miliardi di dollari.
Di più ancora: scorrendo i dati raccolti dai ricercatori emerge che le aree al cui interno si trovano questi impianti hanno tassi di contagiosità decisamente più elevati delle altre (dal 75 al 400% in più), che in media il tasso di positività in queste zone supera il 9% e pure che circa il 15% degli ispettori del ministero dell’Agricoltura mandati a controllare la situazione hanno finito anche loro per contrarre il coronavirus.
Insomma, i giganteschi allevamenti e gli impianti di lavorazione della carne sono pericolosi non solo per chi lavora al loro interno, ma pure per chi gli abita vicino o comunque gli si avvicina: secondo lo studio, che ha preso in esame solo gli impianti dove si producono almeno 4500 tonnellate di carne al mese, il tasso di contagiosità delle città che li ospitano è mediamente doppio nel caso di produzione di carne rossa o di maiale e cresce del 20% circa nel caso di produzione di carne bianca.
Sono cifre che confermano quanto sul Cucchiaio scrivemmo già a giugno 2020 e che vanno ad aggiungere a un problema noto (cioè che la produzione della carne è fra i principali responsabili dei gas serra che finiscono nell’atmosfera) un problema nuovo, quello legato alla sicurezza degli addetti ai lavori. A peggiorare le cose, il fatto che la questione non sia limitata solo agli Stati Uniti: secondo quanto riferito lo scorso marzo dall’agenzia di stampa Reuters, i vertici della brasiliana Jbs, il più grande produttore di carne al mondo, sono stati condannati a pagare quasi 4 milioni di dollari di risarcimenti per il contagio che ha colpito la città di São Miguel do Guaporé, dove ha sede uno degli stabilimenti della compagnia. Capito? Secondo la sentenza del tribunale, la colpa delle diffusione del coronavirus fra i residenti della zona sarebbe del focolaio partito dal mattatoio.
Prima di rispondere a questa domanda, una precisazione a scanso di equivoci: no, il numero riportato qualche riga più sopra non è sbagliato, perché davvero negli Stati Uniti ci sono impianti di macellazione che sfornano 4500 tonnellate di carne al mese.
Per avere un termine di confronto, a livello mondiale si producono ogni anno oltre 400 milioni di tonnellate di carne (di tutti i tipi) e solamente negli Usa ci sono oltre 20mila Cafo (la sigla sta per Concentrated Animal Feeding Operation), cioè mega-fattorie e allevamenti intensivi che ospitano ognuno almeno 1000 “unità animali”, equivalenti a 1000 mucche, 2500 maiali o 125mila polli. Di più: sempre negli States, 4 sole aziende producono l’80% della carne di manzo consumata sul territorio nazionale e altre 4 macellano da sole quasi il 60% dei maiali; secondo gli autori dello studio, negli Stati Uniti questa industria dà lavoro a oltre mezzo milione di persone, pari al 30% di tutta la forza lavoro legata a cibo e bevande ed è divisa (mappa qui sopra) in 39 impianti per la produzione di carne rossa, 31 per quella di maiale e 139 per quella di carne bianca, dove vengono disossati 175 polli al minuto.
Come si vede, la concentrazione è altissima, e i numeri aiutano a capire dove sta il problema: dovendo produrre queste enormi quantità di carne e dovendolo fare a ritmo vertiginoso, come in una vera e propria catena di montaggio, servono tanti lavoratori e serve che questi lavoratori agiscano velocemente. Con buona pace delle norme di sicurezza, come dimostra quanto accaduto con il coronavirus: in questi impianti, come sul Cucchiaio abbiamo ricordato più volte, le persone stanno molto vicine le une alle altre, quando parlano si parlano addosso, hanno poche pause per prendere fiato, soffiarsi il naso o sanificarsi le mani e stanno in ambienti spesso freddi (cosa che favorisce la resistenza dei virus) e caratterizzati da condizioni igieniche scarse. Questo, unito al fatto che sono costantemente a contatto con animali o parti di animali che possono essere veicolo di contagio (come abbiamo visto chiarendo perché tutte le epidemie più pericolose degli ultimi 20 anni sono nate negli allevamenti) spiega perché queste strutture si siano trasformate in pericolosi focolai di contagio: se un animale ha una patologia trasmissibile all’uomo, è facile che gliela trasmetta; se un lavoratore la contrae, è altrettanto facile che la passi ai colleghi. O ai familiari, o ai vicini di casa.
È evidente che questa situazione non è sostenibile (al di là dei problemi legati all’ambiente, s’intende) e che qualcosa deve cambiare nel nostro modo di produrre cibo dagli animali: già alla fine della scorsa estate, il Cdc americano stilò nuove linee guida proprio nel tentativo di evitare una ripresa dei contagi, imponendo l’uso delle mascherine, l’installazione di divisori di vetro e il rispetto del distanziamento e invitando a turni di lavoro meno lunghi, perché “stare a lungo e continuamente in contatto con persone potenzialmente infette aumenta il rischio di diffusione del coronavirus”.
Come abbiamo visto, non è bastato: nei prossimi mesi (o più probabilmente anni) vedremo altri cambiamenti, fra un auspicabile miglioramento delle condizioni di lavoro, un probabile rallentamento della produzione e un contemporaneo aumento dell’impiego di robot e tecnologia. Maggiore automazione significa minore interazione fra le persone e anche fra le persone e gli animali e dunque minore incidenza del rischio di contagio, come ha dimostrato l’anno scorso il caso della danese Danish Crown, uno dei più grandi impianti europei di macellazione, in cui ogni giorno quasi 20mila maiali vengono preparati dalle macchine per confezionamento e vendita.
Questa è probabilmente una delle strade da seguire, forse la più facile e praticabile, decisamente più di quello che si potrebbe pensare. Anche perché il coronavirus non è l’unico problema: all’inizio di febbraio, dalla Cina e dalla Francia, sono arrivate nuove, preoccupanti notizie sul ritorno della febbre suina e dell’influenza dei polli. Ma questa è un’altra storia, che onestamente speriamo di non dover raccontare mai…
Credits immagine di apertura: pexels
Si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova, è nella redazione Web del Secolo XIX e scrive di alimentazione, tecnologia, mobilità e cultura pop.
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