Tante idee buone e gustose senza prodotti di origine animale, da consumare a gennaio, ma anche tutto l'inverno, perché no?
Non serve stravolgere le proprie abitudini alimentari per avere un comportamento più sostenibile anche a tavola: basta qualche semplice accortezza. Cifre e statistiche ci aiutano a capire quali
Sai che se smettessimo di mangiare carne rossa, potremmo ridurre del 20% le emissioni inquinanti legate al cibo? Che se abbandonassimo anche i formaggi e consumassimo solo carne bianca, questa percentuale supererebbe il 30%? E che se fossimo tutti vegani dimezzeremmo l’impatto ambientale della nostra alimentazione e libereremmo il 75% dei terreni dedicati ad allevamenti e agricoltura? È ovviamente un’esagerazione, ma rende bene l’idea di quanto grande sia l’impatto sull’ambiente di quello che mangiamo. E anche di quanto sia grande il nostro potere decisionale. E rende bene l’idea perché i numeri hanno una capacità innata di spiegare le cose, anche quelle più complesse.
Il punto è che produrre cibo inquina, e inquina tantissimo: è confermato che le emissioni di gas serra che provengono da allevamenti e agricoltura rappresentano il 15-20% di quelle totali, ma secondo alcuni studi (come questo, pubblicato su Science) si supera addirittura il 25%, mentre secondo altri (come questo, che arriva dall’Italia e a marzo è stato pubblicato su Nature) si sfiora il 35%.
E qui arriva la prima domanda: perché queste differenze? Quanto inquina davvero, la nostra alimentazione? Stabilito che produrre cibo inquina, come si passa dal 15 al 25, al 35% del totale? Una prima risposta può darla il buon senso: l’industria alimentare muove interessi giganteschi, quindi alcune ricerche possono dare esiti più conservativi di altre per ragioni… economiche, per così dire. Una risposta più efficace e chiara l’ha data la ricercatrice inglese Hannah Ritchie, che lavora presso l’Università di Oxford, viene spesso citata come fonte da quotidiani autorevoli come il Guardian e soprattutto è nello staff di Our World in Data, un sito no-profit fondato dall’economista e filosofo Max Roser che pubblica statistiche e dati per “aumentare la consapevolezza su problemi come povertà, malattie, cambiamento climatico, fame e diseguaglianze”.
Negli anni, Owd ha dimostrato di essere molto affidabile, tanto che sul Cucchiaio abbiamo usato spesso le loro informazioni per accompagnare gli articoli dedicati a sostenibilità e alimentazione, ovviamente sempre verificando le fonti da cui provengono i dati. Relativamente alla produzione di cibo, questo testo si concentra per scelta solo sugli effetti sull’ambiente.
Alla metà dello scorso marzo, su Our World in Data sono stati pubblicati due approfondimenti dedicati appunto a capire da dove arriva l’inquinamento che proviene dal cibo e che cosa succederebbe se cambiassimo il nostro modo di mangiare, allontanandoci più o meno tanto dai prodotti di derivazione animale.
Oltre alle analisi fatte dalla Fao, il “braccio alimentare” dell’Onu, le due letture fondamentali per rispondere alla domanda che dà il titolo a questo capitolo sono gli studi citati sopra, cioè quello pubblicato su Science (che è del 2018) e quello pubblicato su Nature (che è di marzo 2021): secondo il primo, l’industria alimentare produce ogni anno 13,6 miliardi di tonnellate di CO2, cioè il 26% del totale; secondo il secondo, si arriva a 17,9 miliardi di tonnellate di CO2, cioè il 34% del totale. Qual è la ragione di questa discrepanza, piuttosto sensibile? Entrambi gli studi prendono in esame l’utilizzo del terreno (cioè lo spazio che viene tolto a prati e foreste) e la produzione vera e propria del cibo, considerando anche l’agricoltura (perché gran parte di quello che viene coltivato, è coltivato per nutrire gli animali negli allevamenti), il metano emesso dalle mucche, gli impianti di acquacoltura, il carburante usato per i macchinari e pure la parte “logistica”, cioè il confezionamento dei prodotti, il loro trasporto nei negozi e così via.
La differenza è che lo studio più recente considera anche quello che accade dopo. Inteso come dopo la vendita, inteso come quello che facciamo noi: sia l’energia che usiamo nelle nostre case per conservare e cucinare il cibo sia soprattutto la quantità di quello che sprechiamo. E se il primo aspetto può essere trascurabile, il secondo non lo è affatto: ogni anno buttiamo via più o meno un terzo di quello che potremmo mangiare, gettandolo fisicamente via oppure anche lasciandolo da parte durante la lavorazione (e infatti c’è chi lo usa per farci… abbigliamento e scarpe). È come se inquinassimo due volte, insomma.
Capito questo, cioè che è più probabile che quello che mangiamo sia responsabile di più o meno il 34% delle emissioni inquinanti annue, piuttosto che del 15-20-26%, c’è da capire che cosa potremmo fare per migliorare. E anche che le cose stanno in realtà peggio di così.
Come, peggio di così? Perché? Il problema, secondo il ragionamento della Ritchie, è che sull’inquinamento legato al cibo stiamo considerando solo quello che succede adesso, qui e ora: un allevamento da 20mila capi di bestiame occupa una certa quantità di terreno ed emette una certa quantità di gas serra. Ma non dovremmo valutare solo quello, perché il problema non è solo quello. C’è anche il fatto che se quel terreno non fosse occupato da 20mila capi di bestiame e fosse un prato, un bosco o una foresta, non solo non inquinerebbe, ma pure assorbirebbe inquinamento (perché questo fanno le piante: immagazzinano la CO2). Capito? Quello stesso spazio che è fonte di una certa quantità di anidride carbonica, se tornasse alla natura ci aiuterebbe due volte: non sarebbe più fonte di un tot di anidride carbonica e anche assorbirebbe una certa quantità di anidride carbonica che arriva da qualche altra parte.
Il grafico qui sopra rende visivamente bene il concetto: produrre 1 kg di carne di manzo in un allevamento intensivo in Brasile causa l’emissione di quasi 60 kg di CO2 e anche di altri 160 kg di anidride carbonica, considerando quello che quel terreno avrebbe potuto fare se fosse stato lasciato libero. In economia è il concetto di “costo opportunità”: il costo opportunità di un lavoro è il tempo libero che non avrò più, il costo opportunità di una giornata di svago al mare è il lavoro che resta indietro, il costo opportunità del vedere un film è il libro che non leggerò. E il costo opportunità di un allevamento di bestiame è il mancato assorbimento di CO2 che il terreno occupato da quell’allevamento avrebbe potuto garantire. Ecco perché le cose stanno peggio di come sembra che stiano.
Che cosa possiamo fare allora? Dovremmo cambiare modo di mangiare, allontanandoci il più possibile dai cibi di derivazione animale, soprattutto quelli prodotti su scala industriale, fare calare la domanda così da fare calare l’offerta. Non lo diciamo noi, non lo dice Hannah Ritchie, non lo dice Our World in Data: lo dice il WWF e lo dicono pure sempre più esponenti della comunità scientifica, che tempo fa hanno preparato una serie di linee guida per dare vita alla cosiddetta “dieta sostenibile” (sul Cucchiaio ne scrivemmo a gennaio), cioè un modo di mangiare che faccia insieme bene a noi e bene all’ambiente.
Quanto, bene all’ambiente? Secondo i calcoli, se le persone riducessero drasticamente (o addirittura azzerassero) il consumo di carne rossa e formaggi, porterebbero a un calo complessivo annuo di 4,6 miliardi di tonnellate di CO2 e di altre 7,7 sotto forma di costo opportunità dei terreni sottratti ad allevamenti e campi coltivati e restituiti alla natura; di più ancora (è l’esempio fatto all’inizio): se diventassimo tutti vegani faremmo calare le emissioni annue di CO2 di 6,6 miliardi di tonnellate e ne recupereremmo altre 8,1 sotto forma di costo opportunità.
Sul lungo periodo, che cosa succederebbe? Se non facessimo nulla, cioè continuassimo a mangiare come stiamo facendo ora, fra l’altro con la popolazione mondiale prevista in decisa crescita nell’arco dei prossimi 20-30 anni, continueremo a inquinare come stiamo inquinando ora e probabilmente anche di più, perché servirà ulteriore spazio per produrre cibo per tutti quelli che saremo. Se provassimo la dieta sostenibile Eat-Lancet (ogni settimana, un hamburger, 2 porzioni di pesce, non più di 2 uova e poi legumi, noci, frutta, verdura e cereali), nell’arco dei prossimi 30 anni potremmo evitare complessivamente a oltre 330 miliardi di tonnellate di anidride carbonica di finire nell’atmosfera. Per avere un’idea di quante siano, corrispondono a circa 9 anni di inquinamento provocato da carbone, petrolio e altri combustibili fossili. Di più ancora: se entro il 2050 diventassimo tutti vegani, risparmieremmo alla Terra circa 550 miliardi di tonnellate di CO2, cioè più o meno 15 anni di inquinamento da combustibili fossili.
Ma allora basta cambiare il modo di mangiare per salvare il mondo dalla catastrofe ambientale? È così semplice? No, purtroppo non basta: carbone, petrolio e gas naturale rappresentano ancora e di gran lunga la più grande causa di inquinamento sulla Terra. E allora a che serve, cambiare il modo di mangiare? Serve per guadagnare tempo: se incominciassimo a ridurre il consumo di carne e latticini, risparmieremmo al Pianeta l’equivalente una decina d’anni di emissioni da combustibili fossili; se diventassimo vegani, gliene risparmieremmo una quindicina. Insomma: non andremmo ad aggiungere danno al danno, inquinamento a inquinamento, in qualche modo spostando avanti nel tempo quel punto di non ritorno che l’Onu ha fissato negli 1.5-2 gradi di temperatura media in più rispetto all’era preindustriale. Con la speranza che questo tempo in più serva per trovare soluzioni strutturali che permettano di usare fonti di energia alternative rispetto a quelle che stanno danneggiando il Pianeta.
Come si vede, l’esempio fatto all’inizio era davvero un’esagerazione, un’iperbole, una provocazione: non è necessario diventare tutti vegani o stravolgere totalmente le proprie abitudini alimentari per fare qualcosa, dare una mano, fornire un contributo. Per essere più sostenibili anche a tavola, basta qualche semplice accortezza.
Si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova, è nella redazione Web del Secolo XIX e scrive di alimentazione, tecnologia, mobilità e cultura pop.
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