Robot nei mattatoi e piantagioni di grilli coltivati dalle macchine: il futuro della produzione di cibo è già qui

Impianti di produzione della carne chiusi a causa del coronavirus, vendite in calo, clienti persi, posti di lavoro persi: la risposta dei produttori passa attraverso la tecnologia. E attraverso gli insetti

Mattatoi e impianti di produzione della carne chiusi a tempo indeterminato, in lockdown anche dopo che il lockdown è finito, centinaia di lavoratori infettati col coronavirus, alcuni uccisi dalla Covid-19: quello che è successo a giugno nella regione tedesca del Nord Reno-Vestfalia è in scala minore quello che era accaduto fra aprile e maggio negli Stati Uniti e ha dimostrato di nuovo come questo tipo di aziende siano potenziali focolai di contagio.

Il perché lo spiegammo sul Cucchiaio a inizio giugno in questo articolo: perché gli spazi sono angusti, i dipendenti lavorano appiccicati gli uni agli altri e lo fanno a ritmi così elevati che non hanno nemmeno il tempo di andare al bagno o di starnutire, men che meno di farlo nella piega del gomito. Perché dentro fa piuttosto freddo, anche. Insomma, sono le condizioni ideali per la propagazione dei virus, che infettino gli animali oppure le persone. Risultato: stabilimenti chiusi, posti di lavoro a rischio, carne che non arriva nei negozi, conti che non tornano, clienti che cambiano abitudini alimentari e potrebbero essere persi per sempre.

Che cosa sta succedendo negli impianti

Per capire la situazione è utile guardare agli Stati Uniti, perché quello che è successo e succede là può facilmente succedere anche qui: da aprile a oggi, nei mattatoi americani sono stati trovati oltre 5mila contagi da coronavirus, che hanno provocato la morte di oltre 30 persone in 115 impianti di produzione della carne, molti dei quali sono stati inizialmente chiusi, alcuni dei quali sono stati poi riaperti, anche perché il presidente Trump ha firmato un ordine esecutivo per permetterlo/ordinarlo, nonostante le proteste di numerosi lavoratori, preoccupati per la loro salute.

Anche per questo, e anche per il timore (lo stesso che abbiamo qui in Europa) di una seconda ondata di contagi, l’americano Cdc, il Centro per il Controllo della malattie, ha imposto nuovi protocolli di sicurezza : i lavoratori devono indossare la mascherina, essere separati da divisori di vetro e stare ad almeno un metro di distanza l’uno dall’altro, ricordando comunque che in questi capannoni “i dipendenti hanno spesso turni molto lunghi (anche di 10-12 ore, ndr)” e che “stare a lungo e continuamente in contatto con persone potenzialmente infette aumenta il rischio di diffusione del coronavirus”. Sì, è proprio il tipo di lavoro che è pericoloso.

Queste prescrizioni hanno ovviamente rallentato i ritmi di lavoro e di conseguenza la produzione di carne bianca e rossa, con conseguenze sugli approvvigionamenti dei negozi e pure sui prezzi per i consumatori: secondo dati di inizio giugno, complessivamente gli allevatori di bestiame avrebbero perso quasi 15 miliardi di dollari e solo nella Carolina del Nord gli allevatori hanno dovuto uccidere e buttare via circa 1,5 milioni di polli. E la carne che arriva nei supermercati inizia a costare più di prima: in particolare, il prezzo di quella di manzo ha visto aumenti anche di oltre il 15% nell’ultima settimana di maggio rispetto allo stesso periodo del 2019, secondo quanto riportato sia da Business Insider  sia dal Wall Street Journal.

Tutto questo mentre i concorrenti, i marchi legati alla cosiddetta non-carne, fanno affari d’oro, con vendite in crescita di quasi il 180% (analisi Nielsen, sempre alla fine di maggio) e alcune “mosse” pensate proprio per approfittare ulteriormente della situazione: Beyond Meat ha ridotto sensibilmente i prezzi dei suoi burger sul mercato americano (da 2,42 a 1,60 dollari ciascuno) e Impossible Foods ha messo la spedizione gratuita sui suoi prodotti, consegnati a casa entro 2 giorni dall’ordine.

La contromossa dei produttori: robot al posto delle persone

Quello che sta accadendo ha chiaramente un forte impatto anche sull’occupazione: nei soli Stati Uniti, da febbraio sono andati persi oltre 15 milioni di posti di lavoro e il settore della produzione e somministrazione di cibo, con tutto l’indotto, sarebbe il secondo più colpito (dopo quello legato ai trasporti) e avrebbe perso sinora un quarto della sua forza lavoro.

Le strade per risolvere questo problema nel problema sono principalmente due: convertire le aziende nella creazione di altri tipi di cibo, che sia a base vegetale o attraverso l’ingegneria genetica, creando la domanda per nuove capacità e specializzazioni, cosa che agirebbe come “moltiplicatore” per la nascita di nuovi posti di lavoro oltre a quelli direttamente collegati alle aziende (per il settore alimentare, le stime dell’Economic Policy Institute calcolano che per ogni 100 nuovi posti se ne avrebbero altri 230 in qualche modo connessi); oppure impiegare sempre meno dipendenti umani e utilizzare i robot.

Entrambe le soluzioni sono già applicate, per quanto possa sembrare incredibile (soprattutto la seconda): vicino alla città danese di Horsens, in quello che è uno dei più grandi impianti europei di macellazione, 18mila maiali al giorno vengono uccisi e preparati dalle macchine per confezionamento e vendita. Succede nello stabilimento della Danish Crown (che si può “visitare” dal sito slaughterhouse danish crown), dove i robot fanno gran parte del lavoro sporco: con laser a infrarossi misurano le dimensioni degli animali, ne svuotano gli intestini, fanno a pezzi le carcasse, rimuovono gli organi interni e così via, tutto con il minimo coinvolgimento delle persone. Anche emotivo.

Questo ha permesso alla compagnia di avere pochissimi casi di coronavirus (meno di 10 su 8mila dipendenti totali) e pure di non interrompere o nemmeno ridurre la produzione, che è la ragione per cui il suo esempio sarà probabilmente presto seguito da altri, portando innovazione in un settore in cui sinora l’innovazione consisteva nell’aggiungere sempre più lavoratori sottopagati in una sorta di catena di montaggio (dis)umana, tutti accanto gli uni agli altri, così da incrementare a dismisura il numero di capi macellati quotidianamente.

Non sarà un processo facile o rapido, e neppure economico: gli animali non sono pezzi o componenti meccaniche, non ce n’è uno uguale all’altro, esattamente come non c’è una zucchina uguale a un’altra. O due persone identiche fra loro. Per poter lavorare in questo settore, i robot devono essere parecchio raffinati: devono poter vedere dentro al corpo della mucca, del maiale, del vitellino, così da capire dove stanno le ossa e dove tagliare, magari anche valutando quanta carne ottenere da ogni taglio.

Insomma, se l’idea è quella di una catena di montaggio come per le automobili, quella catena di montaggio dev’essere molto smart. E pure capace di adattarsi agli imprevisti, un’abilità che le macchine impareranno dai colleghi umani: alla Danish Crown, il futuro lo vedono con una persona e un robot che operano insieme e ben distanziati dagli altri, con il robot che fa gran parte del lavoro, la persona che lo aiuta nel caso in cui resti bloccato e l’operazione di “sblocco” analizzata dall’intelligenza artificiale che governa il robot, così che possa cavarsela da solo la prossima volta in cui affronterà un problema simile.

Quella piantagione con un milione di grilli

Fantascienza? Non esattamente: ad Austin, nello Stato americano del Texas, c’è una piccola (per ora) compagnia che in un piccolo (per ora) capannone alleva grilli commestibili. Un milione di grilli commestibili al giorno, “coltivati” a partire dalle uova, nutriti e fatti crescere per 6 settimane, sino a quando sono pronti al confezionamento. E (quasi) tutto il lavoro lo fanno le macchine: l’azienda, che si chiama Aspire, ha cercato di rendere le operazioni più standardizzate e replicabili possibile, così che se ne potessero occupare i robot, che somministrano ai grilli da laboratorio l’acqua a il cibo nelle dosi giuste, li spostano da un punto all’altro, alla fine del loro ciclo vitale dividono quelli vivi da quelli morti e dagli escrementi (la procedura è segreta, ed è coperta da brevetto), li raffreddano fino a farli morire e poi li congelano e compattano in buste da 2-2,5 kg. Pronti per essere trasformati in snack e “patatine”, mentre gli umani stanno a guardare. E non si prendono il coronavirus...

Emanuele Capone si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova, è nella redazione Web del Secolo XIX e scrive di alimentazione, tecnologia, mobilità e cultura pop.

Illustrazione di Davide Abbati.

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