Dobbiamo sempre affidarci all’etichetta per capire da dove arriva un cibo che stiamo per comprare e se è di qualità, ma con il pesce possiamo fare anche altro.... Leggi tutto
È l’opposto di quella lineare (estrarre, produrre, usare e gettare) e punta sul creare cose nuove dai resti delle cose vecchie. Riducendo sprechi e rifiuti, come dimostrano molti esempi nell’industria alimentare
Riciclo, riuso, riutilizzo: cos’hanno in comune queste parole, che negli ultimi anni sentiamo usare tanto spesso? Dal punto di vista grammaticale hanno la stessa radice (in questo caso, “ri”), dal punto di vista figurativo aiutano a richiamare il concetto di qualcosa che ritorna da dove era partita, l’idea di un percorso dalla forma rotonda, l’idea del cerchio. E infatti queste sono proprio le parole che stanno alla base della cosiddetta economia circolare.
Si chiama così perché è all’opposto di quella lineare, che prevede una sequenza ben precisa: estrarre (le risorse), produrre, utilizzare e gettare (i beni) e poi di nuovo, partendo ogni volta da zero. Che però è una cosa che non è più o è molto difficilmente sostenibile. Perché? Perché si basa sulla disponibilità illimitata di materie prime e di energia a basso costo, che però non abbiamo: le risorse naturali non sono infinite e il loro prezzo lo paghiamo anche sotto forma di danni all’ambiente, cioè al posto in cui viviamo. E quindi? E quindi la soluzione è appunto l’economia circolare che, in estrema sintesi, permette di creare un prodotto nuovo con quel che resta del prodotto vecchio. In un cerchio infinito che torna dove era partito, riducendo al minimo consumi e sprechi.
Non è facile individuare una data di inizio del concetto di economia circolare, appunto perché è un concetto e non un oggetto: è un’idea, non una lampadina, la ruota, il telefono. Non c’è qualcuno che l’ha inventata, ma come tutte le (buone) idee è nata pian piano e si è fatta largo nel tempo. Secondo più fonti, è fra gli anni Sessanta e i Settanta che ha iniziato a farsi largo l’idea dell’economia circolare, teorizzata in due scritti di Kenneth E. Boulding e Walter Stahel e Genevieve Reday in cui venivano gettate le basi di un sistema produttivo che permettesse di risparmiare risorse e ridurre rifiuti (perché i secondi si trasformano nelle prime). Di rigenerarsi, in qualche modo. E pure di creare nuovi posti di lavoro.
È un’idea che sembra fantascienza anche oggi, dunque non è difficile immaginare la resistenza e lo scetticismo che incontrò 40 o 50 anni fa. E però prese piede lo stesso, perché era buona: nel tempo, l’hanno adottata l’Unione europea, la Cina per i suoi piani quinquennali, l’Onu, gli Stati Uniti e molti, molti altri Paesi del mondo. L’attualità e gli eventi hanno dato una mano: dall’inizio dei Duemila, l’aumento esponenziale del costo delle materie prime e la crisi climatica e il riscaldamento globale (cui contribuisce anche la produzione del cibo) hanno spinto sempre più governi a cercare soluzioni. Nel 2018, l’ONU, insieme con 40 partner, fra cui associazioni come World Economic Forum ed Ellen MacArthur Foundation (fondata nel 2009 e da subito impegnata nella promozione dell’economia circolare), ha creato Pace, una piattaforma dedicata proprio all’adozione di questi princìpi, prima che “continuare su questa strada ci porti alla catastrofe”.
Sono ormai tantissimi i settori produttivi che seguono le linee guida dell’economia circolare (e più sotto ne parliamo), ma è soprattutto quello alimentare che è adatto a farlo, nonostante che magari non sia il primo che viene in mente quando si pensa alla produzione industriale. È adatto per questioni di necessità e per ragioni di opportunità: perché la produzione di cibo è responsabile di molta parte dell’inquinamento e perché, per la loro stessa natura, il cibo e le materie prime che servono per farlo si prestano bene a essere riusate, riciclate e non sprecate. Riutilizzate, insomma.
Per esempio, è proprio dagli scarti della lavorazione del cibo, se non addirittura dagli avanzi, che molte aziende creano abbigliamento, scarpe, borse, accessori, occhiali e cosmetici: lo fanno compagnie piccole, come l’italiana Acbc, Allbirds e Cubitts, ma anche colossi come Hugo Boss, Ferragamo e Body Shop. All’Istituto italiano di Tecnologia stanno ragionando su una cosa simile: il progetto Protheiform di Giovanni Perotto è nato per riutilizzare la cheratina contenuta negli scarti della lavorazione alimentare (è nei peli e nelle piume di polli e galline) e farla diventare materia prima per imballaggi di origine naturale e dunque biodegradabili.
Questo è un caso esemplare di economia circolare: parte dell’animale diventa cibo e la parte che andrebbe buttata via (perché ovviamente non mangiamo peli, piume, unghie, becco e artigli) torna nel ciclo produttivo e viene utilizzata per creare altro. Dimostrandosi utile due volte: non solo non viene sprecata, ma anche può essere usata al posto della plastica, che è uno fra i maggiori pericoli per l’ambiente.
Proprio la riduzione della plastica, soprattutto di quella monouso, è fra gli obiettivi principali che Nazioni unite e Unione europea si sono dati, ma resta ancora molto, troppo utilizzata: in Italia usiamo circa 20 milioni di bicchieri di plastica al giorno; nel Regno Unito se ne usano 400mila tonnellate l’anno per il confezionamento, e più o meno un quarto del totale degli imballaggi è fatto di plastica. Con un problema nel problema: visto che quando viene buttata via, molto spesso questa plastica contiene tracce di cibo, è difficile smaltirla correttamente. L’economia circolare può aiutare anche qui: si può iniziare usando per l’asporto contenitori di carta, riciclati o comunque riciclabili, e anche si può fare come il giovane designer londinese James Shaw, che crea mobili e posate da quel che resta degli scarti delle bottiglie e dei cartoni del latte e di altre confezioni per alimenti. Oppure fare come la sua concittadina Bethan Gray, che usa gusci e piume per dare vita a complementi d’arredo: “Sino a quando mangeremo crostacei e pollame, questi rifiuti ci saranno - aveva detto tempo fa al Guardian - Dunque ha senso trovargli uno scopo”.
Pure l’agricoltura dovrebbe cambiare e infatti lo sta facendo, sia con l’adozione di tecnologie moderne che le permettano di essere più efficiente sia con il ritorno a pratiche antiche come regenerative grazing e intercropping (ne abbiamo scritto ad aprile), che fanno sì che i campi producano più cibo e lo facciano meglio, con meno sprechi. Di più: secondo la Ellen MacArthur Foundation, che è fra le più grandi associazione benefiche del mondo e ogni anno raccoglie centinaia di milioni di dollari da destinare a progetti legati all’ecomomia circolare, proprio il suolo può essere il ricevente perfetto per gli scarti della produzione di cibo, che possono essere usati come fertilizzanti e aiutare a produrre altro cibo.
Quanto agli alimenti di origine animale, un aiuto può arrivare dagli insetti: superato (per noi occidentali) un comprensibile riserbo iniziale, permettono di avere proteine alternative e in qualche modo altrettanto efficaci. Inoltre possono essere usati per dare da mangiare agli animali di allevamento e pure ai pesci che si trovano nelle vasche di acquacoltura, che altrimenti avrebbero necessità di altri pesci per essere nutriti. Rispetto a mucche, polli, galline e simili, gli insetti richiedono molto meno spazio e molta meno acqua per crescere e dunque hanno un impatto ambientale molto minore. E usati come foraggio rientrano nella catena alimentare. Ritornano, cioè.
Anche lo strumento attraverso il quale verrà letto questo testo, che sia un computer o (più probabilmente) un telefonino, può essere costruito secondo i princìpi dell’economia circolare: è sufficiente che sia facile da migliorare, attraverso upgrade che gli permettano di durare più a lungo nel tempo, e soprattutto facile da riparare, così che in caso di guasti non sia obbligatorio comprarne un altro. Che dev’essere prodotto da zero, mentre quello precedente viene buttato via e non ha più alcuno scopo.
È un esempio di economia circolare applicata all’elettronica, ma ce ne sono tanti anche nell’industria automobilistica: molti marchi usano materiali riciclati per i rivestimenti interni (al posto della pelle) o progettano i circuiti di bordo perché possano essere disassemblati facilmente e permettano il riuso dei metalli utilizzati, solitamente rari e preziosi. Anche le formule di possesso alternative all’acquisto, come il leasing o il noleggio a lungo termine, sono forme di economia circolare: la vita della macchina non finisce col primo utilizzatore, ma può passare di mano con maggiore semplicità.
Un altro ambito è quello delle costruzioni, fra palazzi realizzati con materiali riciclati o riciclabili, stampati in 3d, modulari e dunque eventualmente adattabili a nuove esigenze. Qui vale il motto del “costruire sul costruito”, tanto caro a molti architetti: rigenerare e riqualificare quello che già c’è, invece di creare qualcosa da zero, aiuta a ridurre il nostro impatto a livello di occupazione del suolo (i colleghi di Domus hanno scritto di un’iniziativa della Lombardia che va in questa direzione).
Altri esempi sono nell’industria del tessile, con il contrasto alla cosiddetta fast-fashion, la moda “usa e getta” che rende i capi vecchi (e dunque da buttare) dopo una sola stagione: ci sono addirittura marchi, come Patagonia, Stella McCartney ed Eileen Fisher, che si fanno consegnare dai clienti i vestiti usati, li rilavorano, li fanno diventare altro e glieli restituiscono. Ancora: c’è sempre più spazio, in Europa e negli Stati Uniti, per il fenomeno del cosiddetto thrifting, il recupero di abiti vintage, e anche per il noleggio di abiti che magari serviranno per una o due occasioni. E che se fossero acquistati, finirebbero per essere dimenticati in un armadio. Sprecati, che però è una cosa che non possiamo più permetterci. E non solo dal punto di vista economico.
Si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova ed è nella redazione di Italian Tech
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