Tante idee buone e gustose senza prodotti di origine animale, da consumare a gennaio, ma anche tutto l'inverno, perché no?
Da oltre 10 anni, i Paesi ricchi comprano terreni nei Paesi poveri e li usano per coltivare cibo per loro: con l’aiuto di due esperti, raccontiamo una pratica di cui parlano in pochi. Ma che ha conseguenze per tanti.
Lo scorso marzo, dopo che è scoppiata la guerra, l’Occidente ha realizzato quanto fosse dipendente da Russia e Ucraina non solo per il gas e il riscaldamento, ma pure per il cibo. Ci siamo accorti di colpo di una cosa che era vera da tempo, ma che sino a quel momento non avevamo preso in considerazione.
Da questo punto di vista, c’è un’altra cosa che succede da tempo ma che non stiamo prendendo in considerazione. E di cui rischiamo di accorgerci quando sarà troppo tardi per fermarla o per intervenire. Questa cosa si chiama landgrabbing: in inglese, land è la terra e grab significa prendere, afferrare, anche in modo brusco. Il landgrabbing è l'accaparramento di terreni che i Paesi ricchi o comunque più forti fanno nei confronti dei Paesi poveri, in via di sviluppo o comunque più deboli. Stanno (stiamo, perché lo fa pure l’Italia) portando via la terra a quei Paesi per usarla per produrre più cibo.
Il trailer di One Earth, il film di Francesco De Augustinis
Da quand’è che succede? “Da almeno un decennio”, ci hanno detto sia il documentarista Francesco De Augustinis, che da tempo studia questi fenomeni (qui un esempio del suo lavoro), sia Luigi Scordamaglia, consigliere delegato di Filiera Italia, che abbiamo intervistato perché ci aiutassero a capire meglio questa pratica e le sue conseguenze.
L’anno decisivo è il 2007, quando la crisi economica e l’impennata dei prezzi delle materie prime hanno aumentato le preoccupazioni dei Paesi sviluppati per la loro sicurezza alimentare. E quindi che hanno fatto? Hanno cercato terreni fuori dai confini nazionali per aumentare la loro capacità produttiva, nel tentativo di tutelarsi in prospettiva futura. Quando si parla di landgrabbing, si pensa soprattutto alla Cina, anche se è un modo di agire di molti altri (come Stati Uniti, Regno Unito ed Europa): “Pensiamo alla Cina perché forse è quella che lo fa in maniera più strutturata e organizzata, con piani di sviluppo molto precisi - ci hanno detto sia De Augustinis sia Scordamaglia, neanche si fossero messi d’accordo - Ed è quella che ha la forza e le possibilità, anche economiche, per farlo su larga scala, con progetti enormi”.
Il fenomeno riguarda soprattutto l’Africa, ma anche alcune zone del Sud America (soprattutto Brasile e Amazzonia) e dell’Asia, e arriva pure alle porte dell’Europa. Funziona così: imprese straniere, spesso controllate direttamente o indirettamente dagli Stati, portano in quei Paesi investimenti e capitali, soldi che fanno gola ai governi. E in cambio chiedono terra, da comprare o (più spesso) da affittare per periodi lunghi o lunghissimi e su cui coltivare cibo, che servirà in patria per nutrire le persone o (più spesso) per nutrire gli animali con cui poi nutrire le persone. Succede in Etiopia, Congo, Uganda, Senegal, Angola, un po’ in tutta l’Africa subsahariana e in gran parte del Nord Africa: “L’Algeria è l’ultimo tassello che mancava - ci ha spiegato Scordamaglia, che a inizio 2022 ci aveva aiutato a capire le ragioni degli aumenti dei prezzi del cibo - Proprio qui, la Cina ha investito 7 miliardi di dollari che le permetteranno di produrre 5 milioni di tonnellate di fertilizzanti l’anno e in pratica di controllare la produzione alimentare nel continente”. Sfuggendo così al monopolio della Russia in questo campo.
Un altro esempio è quello dei pomodori, di cui su Cucchiaio raccontammo la scorsa estate: per abbassare i costi, le aziende cinesi stanno iniziando a produrli proprio in Africa, dove lo stipendio medio di un bracciante è circa un quarto di quello che si paga in Cina. Il Paese di Xi Jinping lo fa sia “perché è probabilmente più lungimirante di noi” (per dirla con le parole di Scordamaglia) sia perché in qualche modo ne ha bisogno: la Cina ha quasi 1,4 miliardi di abitanti, cioè oltre il 19% della popolazione mondiale, ed è il quarto Paese più grande del mondo, ma paradossalmente ha molto poco spazio per produrre cibo. Secondo stime recenti, la sua superficie coltivabile si aggira sui 120 milioni di ettari, cioè meno del 15% del totale, mentre le risorse d'acqua per persona sono circa un quarto della media mondiale. Insomma: la Cina non ha fisicamente lo spazio per produrre da sola tutto il cibo che le servirebbe. E quindi va a cercarlo altrove e se lo compra.
Come detto, non succede solo in Africa e non lo fa solo la Cina: De Augustinis ci ha raccontato che “a partire dal 2015, subito dopo la crisi della Crimea, l’UE ha iniziato a mostrare grande interesse per i terreni dell’Ucraina, con l’evidente intenzione di farla diventare una specie di granaio d’Europa”. Sono stati stabiliti contatti e avviate le manovre per accaparrarsi quelle terre, ostacolate dal fatto che nel Paese erano in vigore leggi che impediscono la vendita delle aree di proprietà statale. Leggi che l’Europa ha cercato di aggirare in due modi: “Da un lato le aziende dei vari Paesi sono riuscite ad avere le terre in uso per un periodo di 99 anni, con diritto di prelazione per un eventuale acquisto - ci ha spiegato ancora De Augustinis - Dall’altro, sia la Banca Mondiale sia il Fondo Monetario Internazionale hanno promesso soldi e investimenti in Ucraina in cambio di riforme che modificassero quelle leggi che impediscono l’acquisto delle terre da parte degli stranieri”.
Produzione di carne: confronto fra Cina, Europa, UE e USA
È difficile dare una misura dell’estensione del fenomeno: le statistiche dicono che le aree del mondo colpite da landgrabbing ammonterebbero a circa 40-60 milioni di ettari. Che sono tantissimi (l’Italia, tutta intera, si estende per circa 30 milioni di ettari) ma sono probabilmente meno di quelle davvero interessate. Perché? Perché molti di questi contratti sono coperti da segreto, non sono pubblici, non vengono dichiarate le destinazioni d’uso dei terreni, gli accordi passano sottotraccia e non vengono censiti. E quindi? E quindi è più probabile che il landgrabbing, a oggi, riguardi almeno 80 milioni di ettari.
Una cosa che è meno difficile capire è perché sia negativo per i Paesi che lo subiscono: “Tre-quattrocento anni dopo, è una moderna forma di colonialismo - ci ha detto De Augustinis senza tanti giri di parole - Attirati dai capitali stranieri, gli Stati cedono in cambio i loro terreni e si impoveriscono. In più, le materie prime ricavate da questi terreni e i prodotti frutto di quei terreni lasciano i Paesi d’origine e le popolazioni locali difficilmente ne beneficiano”. E visto che stiamo parlando di cibo, la sua mancanza acuisce ancora di più l’emergenza fame in aree del mondo già pesantemente toccate da questo problema e amplifica ulteriormente la distanza fra i Paesi ricchi e quelli poveri.
Non è finita, perché secondo De Augustinis (ma non solo secondo lui) “c’è anche un problema ambientale, di eccessivo consumo del suolo e delle acque, perché le imprese straniere che acquisiscono il controllo dei terreni all’estero non hanno alcun interesse se non sfruttarli e farli fruttare il più possibile: non ne hanno molta cura, perché ovviamente il loro scopo è guadagnare. E quindi usano metodi intensivi di allevamento e coltivazione, monocolture e tante sostanze chimiche che hanno effetti inquinanti”.
Questo ci porta all’ultimo punto del discorso, cioè ai rischi che corre anche chi pratica il landgrabbing: come ormai dovremmo avere capito (anche prima del coronavirus, ma decisamente dopo il coronavirus), la Terra è una, e davvero quello che accade in un posto finisce per avere effetti anche a migliaia di chilometri di distanza. Soprattutto se si parla di ambiente e cambiamenti climatici: “Produrre cibo in questi modi ha alcuni costi nascosti (le cosiddette esternalità negative, ndr) che nell’immediato magari non si vedono ma che alla fine si finisce per pagare - ci ha spiegato ancora De Augustinis - Per esempio, se spazzi via una foresta o un pezzo di Amazzonia per fare spazio a coltivazioni di soia, avrai soia a buon mercato, ma sul lungo periodo quella deforestazione avrà conseguenze su tutto il mondo”.
Il problema non è solo questo. Come su Cucchiaio abbiamo già scritto, e come Scordamaglia ci ha ricordato, a causa della guerra e delle conseguenze del landgrabbing c’è anche una questione di coesione sociale che riguarda i Paesi poveri, i cui cittadini rischiano di soffrire ancora di più la fame: “Siamo davanti alla più grave crisi agroalimentare degli ultimi decenni, che rischia di riverberarsi sull’ordine mondiale, in primis in Africa e in Medio Oriente” e i cui effetti si abbatteranno anche sui flussi migratori, con (secondo la FAO) “centinaia di milioni di persone affamate che si sposteranno per cercare cibo”. Ovviamente muovendosi verso il ricco Occidente.
Da ultimo, questo modo di agire rischia di provocare una sorta di escalation: i Paesi che possono fare landgrabbing lo fanno, quelli che non hanno le risorse economiche per farlo, si tengono quello che hanno e bloccano le esportazioni. Non è fantapolitica, è una cosa che succede già: a maggio l’Indonesia ha sospeso l’export di olio di palma (c’entra la carenza di olio di girasole) e l’India ha interrotto l’export del grano. Ed è probabile che in futuro altri governi scelgano mosse protezionistiche e isolazionistiche dello stesso tenore.
Ma se è dannoso per chi lo subisce e pure per chi lo fa, perché il landgrabbing viene fatto? Principalmente, perché noi stiamo chiedendo troppo, consumando troppo, mangiando troppo: “In Cina il problema non è tanto la popolazione in crescita, ma il fatto che parte di questa popolazione abbia aumentato la sua domanda di cibo - ci ha spiegato ancora De Augustinis - Hanno decuplicato l’import di soia perché hanno decuplicato gli allevamenti intensivi di carne, e l’hanno fatto perché la classe media cresce, ha maggiori possibilità economiche, può permettersi di mangiare carne e dunque la richiede”.
Un altro esempio è quello delle abitudini alimentari degli americani: se tutto il mondo mangiasse carne come loro (anche senza arrivare all’eccesso del miliardo e mezzo di ali di pollo mangiate durante l’ultimo Super Bowl), “per coltivare tutto il foraggio utile per nutrire gli animali necessari, servirebbe uno spazio più grande di tutta la superficie della Terra”.
Su come invertire questa tendenza, i nostri due esperti hanno due ricette diverse, ma che in qualche modo vanno nella stessa direzione: “Dobbiamo senza dubbio ridurre i consumi di alimenti di derivazione animale, ma non basta - ci ha detto De Augustinis - Dobbiamo proprio rivedere e cambiare tutto il nostro sistema produttivo, puntare su produzioni locali che servano le popolazioni del posto”. Insomma: dobbiamo applicare i princìpi della cosiddetta agroecologia (cos’è?).
Secondo Scordamaglia, “è necessario rivedere la PAC (Politica agricola Comunitaria, ndr) dell’UE e il piano Farm to Fork, che secondo stime anche del ministero americano dell’Agricoltura porteranno a un calo della produzione del 10%”, perché “decisamente questo non è un buon momento per farlo”. E anche “dobbiamo essere meno miopi, avere buon senso e non smantellare la produzione agricola a livello europeo”. Dobbiamo guardare al futuro, così magari evitiamo di svegliarci un giorno e accorgerci che nel mondo non c’è più spazio per produrre il cibo che ci serve.
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