Tante idee buone e gustose senza prodotti di origine animale, da consumare a gennaio, ma anche tutto l'inverno, perché no?
Nella sede dell’ONU sono i giorni della IGC5, la conferenza in cui gli Stati dovrebbero impegnarsi in un trattato per la salvaguardia dei mari. Che sono importanti pure per la terraferma
Negli Stati Uniti non si festeggia il Ferragosto, e però è proprio in occasione del Ferragosto che Greenpeace ha deciso di realizzare un’installazione artistica a New York, illuminando il ponte di Brooklyn per ricordare la fragilità e l’importanza degli oceani.
La data non è casuale: proprio in questa settimana, e proprio a New York, nella sede dell’ONU si svolge la IGC5, la quinta Intergovernmental Conference in cui i governi si confrontano per trovare un accordo internazionale che porti a una maggiore tutela per i mari del mondo.
È la quinta perché dell’argomento si parla da tempo: Aakash Naik, fra i responsabili di Greenpeace per la campagna Proteggi gli Oceani, ha ricordato che “gli Stati discutono di questo trattato da quasi due decenni” e che “mentre loro parlavano, gli oceani e le persone che fanno affidamento su di loro hanno sofferto: non possiamo permetterci ulteriori ritardi, e oltre 5 milioni di persone hanno aderito alla nostra richiesta per un trattato solido da finalizzare nel 2022”.
Il punto da capire, anche secondo Naik, è che “gli oceani sostengono tutta la vita sulla terra” e che “secoli di abbandono li hanno spinti in crisi”. E con “tutta” s’intende tutta davvero, non solo quella di chi vive vicino al mare o delle creature che abitano il mare.
Questo è un concetto fondamentale: il benessere degli oceani, e in generale delle grandi masse d’acqua, è importante per il benessere di tutta la Terra, anche delle zone più lontane dalle coste. Perché? Innanzi tutto, perché gli oceani sono fra i principali motori del ciclo dell’acqua, a sua volta responsabile del clima sul pianeta, delle piogge o della loro mancanza e della siccità che ne consegue. Sì: è una cosa che spiegano alle elementari, ma crescendo si tende a dimenticarla.
In secondo luogo, perché negli oceani si muovono correnti che percorrono decine di migliaia di chilometri e che (più o meno per gli stessi motivi) sono in grado di influenzare il clima dei Paesi che toccano. La Corrente del Golfo, forse la più nota, è vitale per le condizioni atmosferiche in tutti i Paesi europei che si affacciano sull’Atlantico, dal Portogallo alla Scandinavia, passando per Francia, Irlanda, Islanda, Belgio e Olanda. Quello che è successo quest’estate in Gran Bretagna, con una scarsità di piogge che non si vedeva dagli anni Trenta del secolo scorso, è un esempio concreto di quello che succederà continuando a indebolire la Corrente del Golfo, come l’anno scorso anticipò un interessante report del CNR.
Insomma: com’è facile intuire, alterare questi equilibri non è una buona idea. Nonostante questo, lo stiamo facendo. Lo stiamo facendo da tempo e lo stiamo facendo soprattutto in due modi.
Il primo problema è ovviamente la pesca. Meglio: la pesca intensiva e fatta male, senza alcuna cura per l’ambiente. Ribadiamo che lo scopo non è smettere di mangiare questo o quello (pesce, nel caso specifico) ma farlo con equilibrio: ONU e WWF sottolineano da tempo che “quasi il 90% delle riserve di pesce nel mondo sono sono state sfruttate totalmente, anche oltre le loro capacità, o sono esaurite”, dunque sarebbe il caso si puntare su altro. Inteso come altro pesce: smettendo di chiedere e mangiare sempre le stesse specie (qui ci sono 9 alternative e alcune ricette per preparale), daremo al mare il tempo di ripopolarsi e agli ecosistemi di ricostruirsi. E finiremo pure per risparmiare, perché i pesci più richiesti sono ovviamente quelli più costosi.
Il secondo è un problema più generale e ha a che fare con l’attività dell’uomo e i suoi effetti sull’ambiente: semplificando, le emissioni inquinanti surriscaldano l’atmosfera, e fra le conseguenze dell’effetto serra c’è anche l’aumento della temperatura dei mari. Di tutti i mari: già oggi, nel Mediterraneo ci sono pesci che 6-7 anni fa non c’erano, come l’estate scorsa ci raccontò il pescatore genovese Mario Migone. È il caso del sigano, un pesce di origine subtropicale che è entrato attraverso il canale di Suez, e l’ha fatto perché ha trovato condizioni adatte alla sua sopravvivenza. Che prima non c’erano.
Che cosa possiamo fare noi, per questo secondo e più grande problema? Limitandoci all’ambito alimentare, come consumatori possiamo provare a orientare le decisioni dei produttori, scegliendo cibi (tutti i cibi: carne, formaggi, frutta e verdure) che vengano prodotti in maniera distensiva e non intensiva, rispettosa dell’ambiente, del ciclo delle stagioni e (perché no?) pure degli animali. Che sembra poco ma non lo è, ed è comunque l’unica cosa che possiamo fare.
Il resto lo possono e lo dovrebbero fare gli Stati: Greenpeace ha ricordato che “un trattato forte permetterebbe di creare santuari oceanici liberi da attività umane e in acque internazionali” e che questa dovrebbe essere “una mossa fondamentale verso la protezione del 30% degli oceani entro il 2030”: è il cosiddetto Programma 30X30, che secondo gli scienziati è il “minimo che possiamo fare per dare agli oceani il tempo di riprendersi”.
Qualche passo nella gisuta direzione è stato mosso: già 49 Paesi (moltissimi in Europa) si sono impegnati politicamente per realizzare entro il 2022 un Trattato sugli Oceani che sia solido e vincolante. Ora non resta che dare concretezza a questi impegni.
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