Tante idee buone e gustose senza prodotti di origine animale, da consumare a gennaio, ma anche tutto l'inverno, perché no?
Vi spieghiamo che cosa sono i vini vegani e perché lo sono praticamente tutti. Anche se quasi nessuno lo dice
Ebbene sì: più o meno tutti i vini venduti in Italia sono vegani. Che è una scoperta anche se non sembra una scoperta: sono fatti con l’uva, è ovvio che sia così. Ma allora: perché in molti negozi, ristoranti e siti sono in vendita sempre più numerosi vini etichettati come vegani, in numero crescente anno dopo anno? Insomma: se tutti i vini sono vegani, che senso ha specificare che un determinato vino è vegano? Con queste domande in testa, abbiamo provato a capire che cosa s’intende per vino vegano e se un vino non vegano è fatto con ingredienti animali. Per districarci in questa materia, che onestamente credevamo fosse meno complessa di quello che si è rivelata, ci siamo fatti aiutare da 4 esperti, rappresentanti di due produttori di piccole dimensioni e di due produttori decisamente più grandi.
Il primo punto da chiarire è la definizione di vino vegano, che è legata al concetto di veganesimo: come su Cucchiaio.it abbiamo spiegato più volte, non è solo un regime alimentare ma un vero e proprio stile di vita. Una filosofia di vita, se vogliamo. E chi la segue vuole evitare il più possibile prodotti derivati dagli animali: non solo in quello che mangia, ma anche in quello che indossa, nella macchina che guida e pure in quello che beve. Anche nel vino, appunto. Ma che c’entrano gli animali col vino? C’entrano, se non nel prodotto finito, almeno nel processo di lavorazione. Meglio: c’entravano.
Alessandro Dettori, titolare dell’omonima etichetta sarda (29 ettari, 120/130mila bottiglie l’anno ed esportazioni in 37 Paesi), ci ha ricordato che “per millenni si sono usate l’albumina e la colla di pesce per chiarificare il vino o il latte per togliere l’ossidazione dai contenitori” e che “le usavano già gli antichi romani”. Semplificando, la chiarifica è una sorta di operazione di filtraggio, usata per rimuovere le impurità dal vino: “Si monta il bianco dell’uovo (l’albume, ndr), la sua schiuma assorbe le asperità, si deposita sul fondo e viene poi rimossa nel corso della lavorazione”, come ci ha spiegato Patricia Tóth, enologo della siciliana Planeta Vini (oltre 2 milioni di bottiglie l’anno, il 55% destinato all’estero).
La componente animale è (era) solo questo? No: “Per anni si è usata la colla di pesce per applicare le etichette sulle bottiglie”, ci ha raccontato Federico Lombardo di Monte Iato, responsabile operativo della siciliana Firriato, che produce 4,5 milioni di bottiglie l’anno da 480 ettari di terreni divisi in 7 tenute, di cui il 55% vendute sul mercato interno. E poi ancora: “Anni fa venne sollevata la questione della cera d’api, usata per sigillare i tappi”, ha ricordato Tóth con un sorriso; poi c’è il tema del letame per fertilizzare i campi e pure quello della macellazione di animali destinati a diventare carne, che nulla ha a che fare col vino, ma magari avviene nella stessa azienda agricola che il vino lo produce.
Ecco, se ci sono queste cose, se viene usata l’albumina (o la caseina) per chiarificare, la colla di pesce per le etichette, la cera d’api per i tappi, il letame per concimare, se sugli stessi terreni da cui arriva il vino vengono macellati animali, allora quel vino non è vegano. Detto meglio: difficilmente verrà certificato come vegano e sicuramente non sarà accettato come vegano dai vegani. Questo è un punto importante da tenere presente, come vedremo andando avanti col discorso.
Si diceva però che ormai più o meno tutti i vini sono vegani, ma com’è successo? “È successo perché abbiamo trovato alternative”, ci ha detto Saša Radikon, titolare dell’azienda friulana che porta il nome della sua famiglia (70mila bottiglie l’anno, la maggior parte destinate all’estero). Quali alternative? “Si può chiarificare e stabilizzare un vino anche con il freddo, che si può ricreare con un compressore o un condizionatore oppure naturalmente, con il clima dell’inverno. Al posto del letame si possono usare il concime chimico, che però noi non usiamo, oppure il sovescio”, che è una semina di erbe leguminose che sono azotofissatori e appunto fertilizzano. Ancora: “Per i tappi può usare la gommalacca invece della cera d’api, e se serve la chiarificazione ci sono ottime alternative minerali come la bentonite - ci ha raccontato Tóth - che sono anche più efficaci e non portano via dal vino le cose buone, come parte dell’aroma e del sapore”. Oppure anche “ci sono filtri a rete derivati dalla cellulosa che filtrano oltre i 0,5 micron e si usano per togliere il fondo” e secondo Lombardo di Monte Iato “funzionano benissimo”, anche perché “se l’uva è lavorata bene ed è di qualità, non è necessaria una filtrazione più profonda”.
Ma perché si sono cercate e trovate queste alternative? È perché tutti si sono messi in testa di fare vini per i vegani? No, in qualche modo è proprio il contrario: l’intenzione di tutti e 4 gli esperti che abbiamo consultato era di fare vini migliori, più naturali, di maggiore qualità. È questo che li ha portati a escludere prodotti di derivazione animale dal processo di lavorazione, come hanno sottolineato soprattutto i due produttori più piccoli: “Cerchiamo da sempre di fare un vino che sia più naturale possibile, che vada anche oltre la certificazione bio”, ci ha detto Radikon; e anche “ho iniziato a fare vini così già nel 1996, non pensando ai consumatori o inseguendo il mercato, ma perché volevo mettere in bottiglia il mio territorio - è la riflessione di Dettori - E il mio territorio è questo”.
Il tempo e l’esperienza li hanno portati lì, insomma. E il mercato, se non inseguito, ha in qualche modo apprezzato: “Oggi vengono accettati, comprati e addirittura richiesti anche vini con un po’ di velatura - ha fatto notare Radikon - Che è una cosa che prima non accadeva”. E questo ha in qualche modo reso superflua la chiarificazione, almeno quella profonda fatta con albumina e caseina, che infatti “noi non usiamo praticamente più da almeno 15-20 anni”, come ci ha ricordato Tóth.
Va bene, ma se più o meno tutti i vini prodotti in Italia sono vegani, perché non dirlo? Perché non scriverlo sull’etichetta? Perché non farlo sapere? Qui la situazione si fa complessa, c’entra un po’ la risposta del mercato e un po’ il discorso fatto prima sul vino “accettato come vegano”. Per capire sono utili le parole di due dei produttori che abbiamo consultato: Firriato marchia come Vegan appena il 4% delle sue bottiglie, anche se “potenzialmente tutti i nostri vini lo sono”, perché “questa cosa non sempre è ben vista”, mentre da Planeta ci hanno detto che “su nessuna delle nostre bottiglie è scritto Vegan, ma lo sono praticamente tutte”, perché “è una caratteristica dei nostri vini, ma non è la caratteristica più importante” e “non è quello il valore aggiunto”.
Il concetto di “questa cosa non sempre è ben vista”, per dirla nel modo diplomatico di Lombardo di Monte Iato, è importante e lo ha espresso in maniera ancora più chiara anche Dettori, secondo cui “molti non lo scrivono in etichetta per evitare scocciature (al telefono ha usato una parola più colorita, ndr)”, perché “se lo scrivi, in qualche modo ti esponi, attiri l'attenzione su di te, vengono a chiederti la certificazione e a cercare la più piccola imperfezione per dimostrare che non sei vegano per davvero”. E magari ti accusano sui social di essere bugiardo e di avere dichiarato il falso. Che falso non è, perché davvero è lecito supporre che tutti i vini siano vegani, sia per le ragioni espresse sin qui sia perché ce l’hanno detto tutti gli esperti con cui abbiamo parlato (e non abbiamo ragione di dubitare delle loro parole), sia perché lo dice il buon senso: “La legge europea impone di indicare in etichetta i possibili allergeni usati anche nella lavorazione di alimenti e bevande, come uova e latte - è la riflessione di Dettori - E visto che non mi pare che ci siano vini che ne indicano la presenza, è lecito supporre che nessun produttore ne faccia uso”.
Quella dei vegani che non accettano che un vino sia vegano è solo una parte del problema. Poi c’è l’altra, probabilmente più importante, che riguarda la risposta del mercato: già nel 2015, uno studio di cui scrisse anche il Guardian evidenziò come la parola “vegan” fosse forse quella più odiata, sgradita e divisiva di tutte. E decidere di usarla per un’attività commerciale è pericoloso, per esempio perché può succedere (e succede) che un ristoratore che ha un menu a base di carne smetta di comprarti il vino, oppure che i clienti abituali si insospettiscano se da un anno all’altro l’etichetta di un vino cambia e compare la scritta Vegan. E dunque anche loro smettano di comprarti il vino. Insomma, il punto è che “cambiare l’etichetta di un vino è un rischio”, come ha ammesso candidamente Tóth, e che “ci sono aziende che hanno perso il 50% delle vendite per aver usato sui loro vini la dicitura Vegan”, come ci ha raccontato Lombardo di Monte Iato.
All'estero le cose vanno leggermente meglio, come sanno bene i 4 responsabili delle aziende con cui ne abbiamo parlato: nonostante i pregiudizi, “la domanda per questi vini è cresciuta tantissimo negli ultimi 5-6 anni, così come la sensibilità e l'attenzione di una parte della clientela - ci ha spiegato Radikon - C’è tantissimo interesse in Giappone, soprattutto dopo i fatti di Fukushima (l’incidente nella centrale nucleare, ndr), oltre che in Norvegia e Svezia”. Ancora, nelle parole di Dettori: “Alcuni ristoranti sono attenti al tema e fanno richiesta di questi vini, soprattutto nei Paesi del Baltico (Estonia, Lituania e Lettonia, ndr) e anche in Finlandia, dove i prezzi sono più competitivi rispetto a Svezia e Norvegia grazie a una tassazione più favorevole”. Anche fuori dai nostri confini, però, qualche timore resta: “Nel Nord Europa, questi prodotti vanno molto bene - ci ha detto Lombardo di Monte Iato - ma negli Stati Uniti, in Svizzera e in Germania sono un po’ sospettosi e spesso preda di una specie di isteria anti-vegan”.
È una forma di paranoia che però deve passare, a vegani e non vegani, perché sul cibo non si tratta di schierarsi da una parte o dall’altra, di prendere posizione, di fazioni e campanilismo: si tratta di mangiare e bere bene. Per quanto riguarda i vini, per dirla come ci hanno detto da Firriato, si tratta di “capire che le diciture Bio e Vegan sono garanzia di maggiore tutela e di maggiore qualità”.
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