Quando ero bimbo c'erano due cose che ora non ci sono più, qui: il Quagliodromo e "al formentòun". Del primo è difficile sentire la mancanza, per motivi che sono così facilmente condivisibili che non vale la pena di sprecare silicio per pallarne. Del "frumentone" invece un po' sì. E mancano soprattutto i sentieri salgariani scavati tra le canne alte, così verdi e umidi da far comparire Kammamuri e Tre Mal Naik ad ogni curva.
Il sapore delicato-deciso del pettoruto volatile, il tocco giallo della farina di mais. Il riso: ma cotto alla maniera delle campagne di Reggio, con il brodo tutto subito e il sugo aggiunto poco dopo.
Disossare le quaglie può essere operazione pallifica. Scegli di prelevare i petti, gesto plausibile, e di far andare il resto in un trito di verdure della tradizione: scalogno, sedano, carotina, un pomodoro piccolo. Due gocce di balsamico, una foglia d'alloro a perdere, uno spicchio d'aglio fresco e le carcasse che vanno, magari bagnate a fiamma vorace con un mezzo bicchiere di vino bianco secco. Dorate girate e ammollate per quindici-venti minuti, saranno ora facilissime da scarnificare.
Batti poi a coltello verdure e carne fino ad ottenere una granella del giusto calibro.
Riporta a calore e versa il riso,senza tostatura. Stavolta usa l'Arborio che più reggiano non si può: aggiungi il brodo di gallina ad alluvione, tenendo il fuoco medio.
A parte impana i petti con la farina di mais, grezza più che puoi, poi passali nella padella con l'olio caldo: che sia estravergine, pochi istanti per lato.
Impagina il riso che dovrà esser ritirato - non tanto come nella foto, ma abbastanza - e appoggia i petti sulla porzione. Manda in tavola con un vino rosso fulminato di acidità, come il gigantesco
Lessona di Massimo Clerico.