Mi piaceva moltissimo Carmen Consoli all'inizio della sua carriera: è stata l'unica autrice ad avere quel talento particolare, capace di piegare la lingua alle esigenze delle sue canzoni spesso un po' sbilenche, ruvide, frequentemente struggenti. Capace di cercare quegli accenti sdrucciolevoli e calcarli dentro i quattro quarti del rock un po' nirvanato degli inizi.
Mi piaceva moltissimo il Battisti divorziato dal paroliere più sopravvalutato del millennio, quando portò nei lettori (di CD) la metrica epilettica di Pasquale Panella, strappando via non solo le rime baciate ma anche il racconto, la storia: lasciando scorrere il flusso delle parole, immaginifico ed evocativo. "Ah, come sono vivace come uno che tace"
Per questo mi schiero a petto nudo - che già di per sè non dev'essere uno spettacolo meraviglioso - quando sento montare la discussione sull'uso del linguaggio nelle descrizioni enogastronomiche. A frotte, a legioni si inalberano di fronte alle acrobazie verbali dei someliè, molto più che dei critici gastronomici, attribuento al loro modo di esprimersi la qualità dell'idioletto per iniziati.
Eppure anche per un lettore di bocca buona dovrebbero risultare stucchevoli dopo poco i vini irrimediabilmente "morbidi" e le bistecche "succulente", i piatti "golosi" e i bicchieri "fruttati".
Si tratta di sfumature, e la lingua italiana ne offre miriadi: lo stesso uso delle parole attribuisce un senso serio o serioso ad una frase. La scelta dei vocaboli determina il risultato del tono, l'umore, il colore stesso del racconto.
Il vero problema è che usare qualcuno di più dei mille vocaboli del telegiornale è ormai considerato un reperto da baule delle cose vecchie. Un po' come l'etica del lavoro, una certa idea di onestà. Un po' come la propensione a rispettare gli impegni e la parola data. Un po' come credere che si possa dire qualcosiasi cosa, con garbo e franchezza.
E senza ullare.