Dobbiamo sempre affidarci all’etichetta per capire da dove arriva un cibo che stiamo per comprare e se è di qualità, ma con il pesce possiamo fare anche altro.... Leggi tutto
Intervista a Luca Travaglini, co-founder della prima startup italiana impegnata nel campo della vertical farm: “Possiamo coltivare ovunque e possiamo farlo sempre, tutti i giorni dell’anno”.
“Facciamo quello che fa la natura, solo che lo facciamo in un altro modo”. E anche: “Il nostro prodotto è lo stesso prodotto che arriva dal campo del contadino, solo che è fatto in modo diverso”. Le parole sono di Luca Travaglini, co-founder della startup italiana Planet Farms, e sono scelte con cura: durante la nostra chiacchierata, per esempio, non usa mai la parola “migliore” e non dice mai che il suo prodotto è meglio. Dice che è differente.
Insieme con l’amico Daniele Benatoff, nel 2018 Travaglini ha fondato Planet Farms (“ma l’idea c’era già dal 2014”), aprendo in quello stesso anno l’hub di Cinisello Balsamo, alle porte di Milano, dove oggi vengono fatti i test su semi e cultivar. A fine 2019 sono iniziati i lavori per l’impianto di Cavenago (la provincia è quella di Monza e Brianza), diventato operativo a maggio 2021. Oggi da lì escono circa 1,5 tonnellate di insalata al giorno, coltivate sull’equivalente di 10mila metri quadrati di terreno. Che però si sviluppa in verticale, invece che in orizzontale.
Succede appunto perché “facciamo quello che fa la natura, solo che lo facciamo in un altro modo”. Il modo in cui lo fanno è sfruttando i princìpi dell’agricoltura idroponica, che è un tipo di agricoltura fuori suolo: come su Cucchiaio raccontammo già nel 2020, si chiama così perché non viene usato terreno per fare crescere la pianta (se non una quantità minima, giusto per sostenerla fisicamente) e viene usata pochissima acqua. Nella vertical farm le coltivazioni non si sviluppano in orizzontale come avviene all’aperto, ma verso l’alto: nell’hub di Cinisello, succede su 3 piani che occupano 3 metri quadrati di spazio, ma è come se fossero 9. Nell’avveniristico impianto di Cavenago, dove tutto è automatizzato per ridurre il rischio di contaminazione del prodotto, i piani sono 6 e questo permette di incrementare notevolmente la produzione.
I vantaggi sono soprattutto due: da un lato, serve (molto) meno spazio rispetto all’agricoltura tradizionale e anche meno risorse, cosa che riduce drasticamente l’impatto ambientale; dall’altro, questa agricoltura si può fare praticamente ovunque, perché non dipende dalle condizioni climatiche e dal variare delle stagioni. E questo permette di avvicinare l’offerta alla domanda, di andare a produrre dove c’è richiesta del prodotto. Anche nel cuore delle città.
Per capire bene come funziona, abbiamo visitato la struttura di Cinisello, vestiti e disinfettati come per entrare in un laboratorio di biocontenimento: i semi vengono piantati in una manciata di substrato (il terriccio, insomma), messi in vassoi di dimensioni standard e tutti uguali, posizionati in stanze ad atmosfera controllata ed esposti a luci a led che simulano l’azione del Sole. E crescono sino a diventare piante e a dare i loro frutti.
Riccardo Missale e Marco Panizza, che sono entrambi agronomi e sono due degli oltre 80 dipendenti di Planet Farms, ci hanno spiegato che “cerchiamo la combinazione ideale di condizioni di luce, tipo di acqua e livello di temperatura per tenere la pianta al massimo della sua efficienza produttiva". Una volta trovate, queste condizioni vengono riprodotte nelle celle durante la coltivazione e restano costanti. Che è una cosa che all’aperto, nei campi, non si può fare, banalmente per l’imprevedibilità del clima, delle precipitazioni, dell’irraggiamento solare. Di più: “L’acqua (che è quella normale dell’acquedotto, ndr) viene controllata costantemente via software, per verificare che non perda le caratteristiche di salinità e di pH, ed eventualmente corretta in caso di discrepanze”.
Come detto, se ne usa poca. Anzi, si usa quella che serve, con precisione matematica: l’irrigazione viene fatta dal basso e non dall’alto, come succede all’aperto, così “non schizza, non si spreca, non sposta il terriccio, non lo fa saltare in giro”, magari facendolo finire sulle foglie. Inoltre, “il nostro è un sistema a ciclo chiuso tipico dell’economia circolare, in cui non si perde nulla - ci ha spiegato Panizza - Quello che viene dato alla pianta ed eventualmente avanza, torna in circolo”. Iniziando dall’acqua.
Una volta che le piante sono cresciute, tutte insieme, tutte alla stessa altezza, uniformi e precise, pronte per dare ognuna la medesima quantità di prodotto, i vassoi vengono spostati in un’altra stanza, dove altre macchine si occupano del taglio e della raccolta delle foglie, che poi vengono confezionate e preparate per la vendita. Non prima di una serie di prove di conservazione: “Simuliamo quello che potrebbe accadere dopo l’acquisto, in una casa, al supermercato, in un ristorante - ci ha raccontato Missale - L’insalata viene estratta dal frigo 3 volte, a distanza di diversi intervalli di tempo, per vedere come reagisce”.
Superatii test, le sementi possono essere usate a Cavenago e coltivate, per dare vita ai prodotti che Planet Farms vende già dall’autunno del 2021: al momento il grosso è costituito da 5 tipi di insalate pronte al consumo, cioè lattughino e rucola, e 3 diversi mix. Coltivare così richiede meno risorse ambientali, ma molte risorse economiche: servono macchinari, computer, software, filtri, stanze, personale. Tutto questo ha un costo e ha conseguenze sul prezzo finale: per una busta di insalata da 80 grammi di Planet Farms si spendono circa 2,5 euro. Non è poco, e Travaglini lo sa bene: “Il nostro è un prodotto premium e che viene considerato caro, ma c’è una considerazione da fare”. Quale? “I nostri 80 grammi sono tutti di insalata, sono netti - ci ha detto - Non c’è acqua, perché le nostre verdure non hanno bisogno di essere lavate proprio grazie a come vengono coltivate. È come comprare 130-140 grammi di insalata di un altro marchio”.
Le insalate di Planet Farms si possono acquistare nei punti vendita di alcune catene della grande distribuzione, come Esselunga, Viaggiator Goloso, Iper, Unes e Il Gigante. Insieme con loro c’è pure il pesto. Anzi, il Pestooh (i nomi dei prodotti sono tutti un po’ strani): con aglio o senza, una confezione da 90 grammi costa poco meno di 4 euro. “È il primo preparato che abbiamo pensato di fare, perché è quello che viene più spontaneo fare, partendo dal nostro basilico”, ci hanno spiegato dall’azienda. Ma come hanno reagito i liguri, che sono notoriamente restii ad accettare novità, quando si parla del loro condimento? Sorridendo, Travaglini ci ha raccontato che “il confronto è stato difficile soprattutto con i nostri dipendenti genovesi, che sono tanti”, ma che “il prodotto piace e funziona, ed è così perché gli ingredienti sono DOP e di qualità altissima, dai pinoli al pecorino, dall’olio all’aglio, e durante la lavorazione il nostro pesto non subisce alcun trattamento termico, che sarebbe dannoso per il basilico”.
Proprio il basilico verticale è stato (ed è ancora) fra i protagonisti di una bella storia che ha visto impegnati quelli di Planet Farms con i titolari di Da Vittorio, ristorante stellato di Brusaporto, in provincia di Bergamo: “All’epoca della prima ondata di coronavirus, la famiglia Cerea prese in gestione la mensa dell’Ospedale degli Alpini, allestito per fare fronte ai contagi e ricoverare i malati - ha ricordato Travaglini durante la nostra intervista - Era l’8 marzo 2020, chiesero aiuto per la fornitura di materie prime e noi mandammo il nostro basilico. Piacque talmente tanto che ce ne chiesero altro, anche dopo l’emergenza”. La startup decise di fare di più, allestendo a Brusaporto una piccola vertical farm dove fare crescere le verdure necessarie alla preparazione dei piatti: “Questa soluzione risolve tanti problemi che un ristoratore può trovarsi ad affrontare - ci ha spiegato Travaglini - come l’instabilità climatica, con i prodotti che variano in quantità, qualità e gusto a seconda dei capricci del meteo. Oppure la reperibilità di alcune verdure, che magari arrivano da molto lontano. Possiamo anche coltivarne di specifiche, su specifica richiesta”.
Travaglini ci ha anticipato che questa esperienza verrà ripetuta altrove, perché “c’è molta richiesta per queste installazioni, e altre ne verranno fatte a Milano”, anche se “non è il nostro lavoro”, perché “servono volumi molto grossi per far funzionare economicamente questa cosa”. Allo stesso modo, Planet Farms non sembra intenzionata a buttarsi nel business degli orti urbani, che pure è in forte crescita, soprattutto in questi anni di ristrettezze: “Non è il nostro campo, e ci sono altri, anche in Italia, che già lo fanno e lo fanno bene (è il caso dei milanesi di Hexagro, ndr) - ci ha detto ancora Travaglini - E però, fare capire alle persone che questa cosa è possibile e qual è l’impatto dell’agricoltura sull’ambiente, farglielo vedere da vicino, è sicuramente utile”. È anche per questo che la startup ha dato vita a un progetto, insieme con Esselunga, che vede coinvolte 500 classi, fra elementari e medie, di un centinaio di scuole di Milano e dintorni: si tratta di un programma che dimostra agli studenti l’impronta idrica degli alimenti, attraverso 5 lezioni che portano all’allestimento di una vertical farm, dalla semina alla raccolta, passando per la fase di crescita.
Non dedicarsi agli orti urbani non vuole certo dire che Planet Farms abbia intenzione di stare ferma sulle sue posizioni. Gli affari vanno evidentemente bene, e l’azienda ha intenzione di espandersi, aprendo 4 nuovi stabilimenti nel corso del 2023: uno in Emilia Romagna, un altro a Cavenago, uno a Cirimido (in provincia di Como) e uno nel Regno Unito, fra Londra e Cambridge. Gli ultimi due, secondo quanto annunciato, avranno una capacità più che doppia rispetto al primo, arrivando a produrre oltre 3 tonnellate di verdure al giorno.
Verdure che non saranno solo quelle fatte sin qui: “Sono in arrivo nuove varietà di insalate e nuove confezioni di erbe aromatiche - ci ha anticipato Travaglini - e la ricerca è molto avanti pure sulle zucchine e su frutti rossi e piccoli frutti”. Ecco, la frutta: perché non si fa la frutta, con l’agricoltura verticale? È troppo difficile e complicato, perché le piante sono troppo grandi? No, è troppo costoso: “La frutta è assolutamente fattibile, ma deve venire bene e dev’esserci mercato, deve avere un prezzo competitivo. In Giappone la fanno, ma magari 5 fragole finiscono per costare decine di euro. In Italia, almeno per il momento, una cosa del genere è impossibile e inaccettabile”.
E poi? “E poi stiamo pensando pure al cacao e alle piante di caffè e stiamo anche cercando di guardare oltre il settore alimentare, facendo test nel mondo del tessile, principalmente con cotone e lino”.
Un ostacolo grande, per le startup innovative come Planet Farms, soprattutto in un Paese come il nostro, molto legato alle tradizioni quando si parla di cibo, è andare oltre lo scetticismo delle persone. Come si fa superare i soliti “ma chissà come la fanno quella roba lì” e i “chissà cosa c’è dentro”, tipici dei social network? Abbiamo chiesto a Travaglini come la sua azienda affronti tutto questo: “Onestamente, devo dire che mi aspettavo più ostilità da parte della gente, forse succede perché la nostra azienda è trasparente e rispettosa, si vede quello che facciamo, lo spieghiamo e non parliamo male degli altri”. Soprattutto, “non parliamo male dell’agricoltura tradizionale, che non è un nostro concorrente: la supportiamo e la integriamo. E nemmeno facciamo prodotti fake o imitazioni di qualcosa: facciamo quello che fa la natura, ma impatto zero e fatto in modo diverso”.
Pur ammettendo che “forse manca un po’ la visione romantica del contadino che coltiva la terra, che fatica e suda sotto al sole”, Travaglini ha però ricordato che “l’agricoltura non è più così già da un po’ e non può più essere così” e che difficilmente si tornerà indietro. Nel senso che le coltivazioni fuori suolo sono sia il presente sia il futuro: “Il mercato senza dubbio c’è, perché negli anni a venir servirà molto cibo per l’umanità, sarà necessario produrlo, serviranno spazio e pratiche sostenibili e replicabili ovunque”. E la forza di realtà come Planet Farms sta proprio qui: “Il nostro è un modello di autosostentamento, possiamo produrre dappertutto e possiamo produrre dove serve, pure in quei Paesi da dove la gente scappa spesso proprio per la mancanza di cibo”. Che è una cosa vera, anche se spesso la dimentichiamo.
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