«Io scrivo soltanto la vita» ha dichiarato un giorno Mila Curradi Stella, che con lo pseudonimo di Luisa Adorno ha pubblicato una mezza dozzina di libri. Vita raccontata con semplicità e discrezione, ma con sguardo attento e rispetto per tutto ciò che - persone, luoghi, avvenimenti - vi entra a far parte. E ciò che ne fa parte è un brano di storia italiana sul quale sono stati spesi fiumi di inchiostro, di pellicola cinematografica, di inchieste e studi sociali - le trasformazioni dell'Italia uscita dalla guerra mondiale, le famiglie che si sono formate fra anni Quaranta e Cinquanta, l'esistenza delle donne occupate per la prima volta, in tante, nel lavoro fuori di casa. Niente di più lontano dalla sociologia delle pagine di Adorno, ma è appunto la delicatezza dell'osservatrice a farne una lettura intima, avvincente, nella quale si percepisce una inoppugnabile attenzione ai minimi atti dell'esistenza.
Sposando l'unico figlio di un Prefetto di origini siciliane, la giovane donna toscana si trova accolta con affetto e circospezione in una famiglia della quale tutto le è estraneo: abitudini quotidiane, modi di vestire, stili di conversazione e - inesorabilmente - costumi alimentari. Il primo libro della serie, L'ultima provincia, è stato definito un libro «di tenace umorismo», alla lettura del quale «si ride di cuore». Non c'è dubbio che le pagine dedicate ai pasti, alle radicate abitudini del Prefetto e della Prefettessa sua moglie tocchino le corde della comicità, con la regolare apparizione in tavola dei cibi considerati appropriati di volta in volta all'occasione o al momento della giornata.
La verduredda, cotta nell'acqua e servita fluttuante in quella stessa acqua, elevata al rango di brodo e tenuta per saluberrima, presenza necessaria ad ogni pasto serale. L'uovo che vi si accompagna, inconcepibile anch'esso - a cena - altrimenti che bollito, di preferenza allo stadio di bagnarepane, cioè bazzotto. Lo spaesamento della scrittrice, che per rappresentarsi non ha bisogno di altro che dei due lessici contrastanti, quello siciliano-familiare del marito e quello tosco-italiano delle sue origini, è sufficiente a muovere al riso. Ma ci si accorge presto inoltrandosi nella lettura che non tutto si esaurisce nell'affrontare, ridendo per farsi coraggio, usanze incomprensibili prima che esotiche.
Sono gli aggettivi, le pause del discorso a dare il vero senso a tutto ciò che si vede. Si osserva - per esempio - l'alternarsi della pasta con la sassa di pomodoro, naturale presenza nei pranzi feriali scanditi dall'orario di lavoro prefettizio, colla medesima pasta ma condita col sugu di carne, pregustata e goduta evenienza di ogni festività settimanale. E si capisce che le differenze - tra una donna autonoma e una famiglia patriarcale, tra una regione d'Italia e un'altra, tra un'epoca che sta per concludersi, forse, e quella che sta per venire - sono sì evidenti, ma non è una cosa ridicola. Semmai una meraviglia da contemplare, senza discredito, senza timore.
E così, quando arriva il momento di preparare il tradizionale stoccafisso destinato al modesto gruppo di vendemmiatori nella modesta tenuta che il Prefetto si è scelto per gli anni della pensione, la pagina assume contorni ancora più vividi. La «pentola da convento gorgogliante» nella quale la domestica getta, insieme al pesce stocco, «manciate di uva secca, di patate, di pere» si mostra come un crogiuolo magico, a cominciare dall'ora del mattino (le nove) in cui il piatto sarà servito. Ma il profumo che se ne spande è profumo di vita, di vita amata e ammirata in ogni sua forma, dalle sponde dell'Arno alle pendici dell'Etna.