Gli aneddoti che si potrebbero raccontare della vita in sala di un sommelier sono tanti quanti i clienti che si siedono a tavola al ristorante. Ogni ospite porta con sè un vissuto e nel suo interagire, seppur si tratti di un breve scambio di parole e gestualità, lascia una briciola che come dei Pollicino possiamo raccogliere in un immaginario percorso a ritroso che consente di comporre una popolazione variegata e per questo affascinante.
Una sera d’autunno una coppia delicata e con gli occhi brillanti degli innamorati alle prime uscite mi chiama dopo aver sfogliato la carta dei vini per qualche minuto. A dire il vero è lui a chiamare. Succede per galateo, ma come spesso accade si tratta di una “richiesta su commissione”. Con aria intimidita e ancora con l’indice su un punto a caso di una pagina qualunque di quell’elenco probabilmente a lui ostico, si rivolge a me a bassa voce e mi porge la seguente richiesta senza punto di domanda al finale: “Vorremmo bere quel vino con la G…”
Io temo di non aver capito e facendo finta che il tono di voce della richiesta fosse troppo sottile chiedo con un “mi scusi?” di ripetere. “Si, sa quel vino con la G?”. La sua compagna alterna lo sguardo da lui a me con un chè di attesa e speranzosità. Io immagino subito che stiano cercando nella memoria una bottiglia che hanno bevuto magari una volta sola, e di cui non ricordano il nome come a volte accade per quelle cose che ci attraversano la vita e facciamo fatica a fissare.
Guardo l’indice puntato sul foglio e nel titolo leggo Vini Bianchi, così inizio a dare le più svariate soluzioni al quesito: dal nome di un vitigno forse un po’ inconsueto come il Gruner Veltliner o il Grillo, al nome di una denominazione come Greco di tufo o Gavi. Niente. Chiedo se si tratti del nome di un produttore in particolare. “No” mi dice, “quel vino con la G!”. Al che lei poggia una mano sull’avambraccio e guardandomi dritta negli occhi mi dice: “Sa quello profumato?”. A quel punto la soluzione è facile e il vino del mistero, un Gewurztraminer trentino, viene stappato tra i sorrisi di approvazione di lei e il soddisfatto rasserenamento di chi ha compiuto un’impresa di lui.
E io che non pensavo che il Gewurztraminer fosse uno di quei vini da chiedere con la G, forse perché convinta del fatto che anche mio fratello che poco c’azzecca col mondo del vino, sul pesce sceglierebbe quello o il Mueller Thurghau complice lo scaffale ad altezza occhio dell’Esselunga.
Ma se si mette un elenco in ordine alfabetico su xls il primo nome è quello che comincia con un numero. E anziché del vino con la G, inizierò dicendo di un vino con un numero, anzi con i numeri. Innanzitutto 2003, l’annata, e sull’etichetta piccola posta sul collo della bottiglia è riportata la dicitura Bottiglie Prodotte 2920 seguita da N. 2310.
9cento è il nome del vino in etichetta. Una piccola produzione di un atipico Oltrepò Pavese, dove Oltre-il-Po le colline accompagnano lo sguardo fino all’appennino.
Il Santo è un epiteto tramandato di generazione in generazione nella famiglia Barbieri ed Eugenio il miracolo lo fa con la passione che ogni giorno gli accende lo sguardo sul Podere, un vero e proprio ecosistema agricolo fatto di agricoltura, allevamento e viticoltura, una realtà che potrebbe essere l’archetipo di tutte le modaiole declinazioni di naturale, sostenibile, km zero, biologico, “vero”.
9cento non è un vino rosso, è un vino nero. La lunga macerazione, l’uso del tonneau per la prolungata maturazione e l’assenza di chiarificazioni e filtrazioni pre-imbottigliamento rendono questo vino impenetrabile nel bicchiere. I profumi sono densi, di frutta rossa e viola stramatura ma ancora viva, senza la stanchezza dolce della marmellata. I lieviti naturali hanno estratto dall’uva i sentori della terra. Ci sono delle speziature che solleticano il naso, chiodi di garofano e un ché di noce moscata. Il sorso è corpulento ma non si tratta di un vino-budino, nonostante i 15% vol riportati in etichetta. L’acidità della barbera, e l’alcolicità potente sono cuciti insieme da un tannino aggraziato e l’assaggio è piacevole, equilibrato ma non scontato.
Tutto fuorché banale questo vino “agricolo” che racconta la storia dell’annata e i segni lasciati dal clima sulle viti vecchie, senza tentativi di mimesi o di omologazione. E quando ho chiesto ad Eugenio di raccontarmi qualcosa del vino lui ha risposto “Mah..io ho raccolto, ho spremuto e ho lasciato lì qualche anno, e adesso è qui.” Sorride.
NdR.: Chiara Giovoni è lo spumeggiante Sommelier del Ristorante Nicola Cavallaro al San Cristoforo di Milano. Interpreta la professione con brillante levità, pochi ragnatelismi e pochissima prosopopea. Essendo una delle ormai fortunatamente non troppo rare donne del vino, volontieri trova spazio per la sua scrittura.