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Viene dall'Università di Napoli la proposta di estendere i principi della Dieta Mediterranea all'intero Pianeta. Riuscità la Dieta Planeterranea a convincere tutto il mondo?
Modello alimentare di fama internazionale, nella Lista del Patrimonio Culturale Immateriale Unesco dal 2010, ha pochi detrattori e non subisce le mode. È la Dieta Mediterranea, imbattibile paradigma di salute, per noi e per l’ambiente, da quando fu codificata dalla nutrizionista americana Ancel Keys, negli anni ’50.
È tale la sua reputazione che la Cattedra UNESCO di Educazione alla Salute e allo Sviluppo Sostenibile dell’Università di Napoli sta proponendo di adattarla su scala mondiale, a livello locale, attraverso l’impiego dei prodotti alimentari peculiari di ogni parte del mondo. Il nome proposto è Planeterranea, meno evocativo e musicale, ma molto ambizioso.
Partiamo da un veloce riassunto: la Dieta Mediterranea fa bene perché riduce le malattie cardiovascolari, metaboliche o neurodegenerative e i tumori. È sostenibile perché si fonda sull’impiego di prodotti locali (abbattendo la carbon foodprint), preserva la biodiversità e la tradizione. Ma come proporla a tutto il Pianeta, dalla Bolivia al Mar Nero? Andando a individuare per ogni paese frutta, verdura, cereali, legumi con caratteristiche e benefici simili a quelle che stanno alla base della nostra Dieta Mediterranea. Adattandola e riscrivendola insomma, in funzione della latitudine a cui ci si trova.
Si legge nella presentazione del progetto sul Nature “L’avocado, la papaya, le banane verdi e le bacche di andaçaí rappresentano buone fonti di acidi grassi monoinsaturi (MUFA), micronutrienti e polifenoli. Per alcuni cereali dell'Africa centrale, come tapioca/manioca e teff, si pensa che favoriscano la produzione di acidi grassi a catena corta (SCFA), come avviene per i cereali integrali tipici della Dieta Mediterranea. Inoltre, la quinoa è ricca di proteine e fornisce aminoacidi essenziali, con un contenuto di grassi limitato. L'olio di canola canadese, così come le noci pecan, contengono acidi grassi monoinsaturi e fitosteroli, e hanno dimostrato di abbassare il colesterolo LDL. Anche prodotti subtropicali popolari come i fagioli pinto e l'okra, ricchi di fibre e proteine, sono associati a livelli ridotti di colesterolo LDL e a una minore incidenza della sindrome metabolica o di eventi cardiovascolari”
E l’elenco di esempi continua con i semi di sesamo, l’alga wakame, la spirulina, le noci macadamia, la prugna di Davidson (una specie australiana), il finger lime, molti dei prodotti che noi consideriamo già superfood e fanno la loro comparsa nei menu di ricerca e, contemporaneamente, nelle ricerche di Google. Alimenti spesso ricchi di flavonoidi, vitamine, antinfiammatori, antiossidanti e si potrebbe continuare.
Il principio è semplice dunque, attraverso una mappatura degli alimenti presenti nel mondo si punta a costruire, sul modello della Dieta Mediterranea, un paradigma locale, facilmente applicabile dalla popolazione. Le piramidi nutrizionali si moltiplicherebbero e insieme i benefici che portano con sé.
La chiamata ai ricercatori di tutto il mondo da parte dell’Università di Napoli è forte, la ricerca partirà su una piattaforma dedicata.
Ma nel frattempo dovremmo impegnarci di più anche noi mediterranei, a quanto apprendiamo da un recente studio del Centro di ricerca CREA-Alimenti e Nutrizione pubblicato su Frontiers e condotto su un campione di 2.869 intervistati fra giugno e luglio 2020. “Un’alta aderenza alla dieta mediterranea viene riportata per il solo 13,3% della popolazione italiana soprattutto fra le donne, gli anziani, le persone con livelli di istruzione elevati e coloro che vivono in aree urbanizzate”. Dunque, c’è un buon margine di miglioramento.
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