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La legge consente di usare come concime quel che avanza dalla bonifica delle acque reflue. Ma anche se è consentito, non è detto che sia una buona idea: qui spieghiamo perché e quali rischi si corrono.
Lo diciamo subito: l'argomento di cui si parla qui è poco gradevole. E meno male che non hanno (ancora?) inventato un modo per percepire i siti anche con l'olfatto, oltre che con la vista e l'udito, perché altrimenti l'odore di questa pagina sarebbe di quelli che danno fastidio.
Perché qui si parla di fertilizzanti e di concime e in particolare del cosiddetto letame umano, cioè di quello che c'è nelle nostre fogne, di come finisce sui campi e viene utilizzato per coltivare il cibo che mangiamo. Che è una cosa legale e lecita, ma che non va tanto bene lo stesso.
Per capire, serve fare un passo indietro a una decina d’anni fa, quando si è iniziato a parlare di come riutilizzare i fanghi da depurazione. Che cosa sono? Sono quello che avanza dall’azione dei depuratori sulle acque reflue di provenienza civile e industriale: sono la parte solida, perché quella liquida (dopo essere stata pulita e depurata) finisce nei fiumi oppure in mare. Invece i fanghi sono un rifiuto da smaltire.
Essendo però un rifiuto teoricamente “pulito”, è venuta l’idea di riutilizzarli appunto per concimare i campi, al posto del letame e degli altri concimi organici (come cenere di legna, cornunghia, sovescio e simili) oppure per integrarli. Per concimare i campi e fare crescere grano, mais, frumento, soia e tanta altra frutta e verdura. Sì: è una cosa strana e che fa un po’ impressione, però in teoria è anche un ottimo esempio di economia circolare, cioè di un rifiuto che torna a essere produttivo e non viene sprecato.
E allora che c’è che non va? Due cose, soprattutto. Intanto, vista la loro provenienza e nonostante il passaggio in depuratore, i fanghi tanto puliti non sono: contengono azoto e fosforo che sono utili ai terreni, ma anche sostanze inquinanti, metalli pesanti, idrocarburi, diossine e Pcb (la sigla sta per policlorobifenili), che non sono utili a nessuno. E anzi sono classificati come cancerogeni. È vero che per i fanghi usati per fertilizzare, la legge stabilisce limiti da non superare per queste sostanze (fra l’altro innalzati nel 2018), ma la domanda resta: poca quantità di una cosa cancerogena, la rende meno cancerogena?
L’altro aspetto che non va, è più grave ancora e ha a che fare con i cosiddetti gessi di defecazione: semplificando, sono fanghi di depurazione che vengono ulteriormente lavorati e in qualche modo “purificati” e poi possono essere usati come fertilizzanti. Perché è più grave? Perché, quando diventano gessi, i fanghi sono sottoposti ad ancora minori controlli e in particolare solo ad analisi che verificano la presenza di metalli pesanti ma non di sostanze chimiche e residui organici. Si suppone che le verifiche siano state fatte prima, anche se non sempre è così.
Il problema dei fanghi non è solo italiano: in Gran Bretagna, Irlanda e Spagna sono ampiamente utilizzati per l’agricoltura, mentre in Belgio, Olanda e Svizzera si preferisce incenerirli e liberarsene. Che è forse un po’ quello che vorrebbe che se ne facesse Coldiretti, la cui posizione sul tema è chiarissima: “È sempre meglio usare il concime organico che arriva dalle stalle, in un’ottica di sostenibilità ambientale e per preservare le caratteristiche dei suoli, scongiurando l’inaridimento e il rischio idrogeologico”, ci hanno detto dalla sezione di Pavia dell’associazione.
Il loro presidente si chiama Stefano Greppi, è anche risicoltore e la questione la conosce bene. E benissimo lo conosce chi produce riso nella Lomellina e in generale nel Pavese, che è il territorio italiano dove questo problema è più sentito: non solo qui ci sono oltre 1500 aziende risicole (più di un quarto del totale italiano) e qui viene coltivato il 40% del riso italiano, ma anche ci sono 13 ditte che lavorano i fanghi, che è un numero che non raggiunge nessun’altra provincia. Di più: ogni anno il Pavese genera da solo circa 50mila tonnellate di fanghi ma finisce per gestirne oltre 1 milione di tonnellate, che arrivano da ovunque, anche dall’estero. E poi finiscono sui campi.
Con chiarezza, Greppi ci ha spiegato che “in agricoltura l’uso di fertilizzanti di natura chimica o sintetica è ampiamente sdoganato, soprattutto perché non ci sono abbastanza allevamenti e dunque c’è poca materia prima”. Insomma: c’è poco concime organico e questo ha probabilmente spinto gli agricoltori a cercare alternative, come i concimi azotati o a base di fosforo. Oppure i fanghi da depurazione. E visto che anche i primi stanno iniziando a scarseggiare a causa della guerra fra Russia e Ucraina (“le aziende produttrici sono quasi tutte russe”, ci ha ricordato Greppi), è immaginabile che i secondi prenderanno ancora più piede.
Come si capisce, il motivo principale del successo dei fanghi come fertilizzanti è la facile reperibilità, mentre un altro è probabilmente la loro convenienza: costano poco, sia per l’agricoltore sia per la comunità. Almeno dal punto di vista economico: il prezzo dei fanghi usati per i campi si aggira intorno ai 60 euro a tonnellata (pur con differenze anche sensibili da regione a regione), mentre per bruciarli e smaltirli in un inceneritore si può arrivare a spendere anche 140 euro a tonnellata. Più del doppio.
Come tutte le medaglie anche questa ha però il suo rovescio, che è quello che abbiamo visto più sopra: “Servono certificazioni che permettano di essere sicuri che fanghi e gessi siano privi di inquinanti e per il loro uso sono necessarie regole valide per tutti, a livello nazionale - ha ribadito ancora Greppi - Al momento, c’è un rischio troppo alto di provocare danni sia ai terreni, e dunque agli agricoltori, sia al cibo, e dunque ai consumatori”. Sino a quando queste regole non ci saranno, si capisce che la raccomandazione di Coldiretti è che i fanghi da depurazione e i gessi di defecazione non vengano usati.
Ma visto che vengono usati, noi come possiamo difenderci? Quando andiamo a fare la spesa, come possiamo sapere se il riso che stiamo comprando è stato concimato con i fanghi o se la frutta o la verdura che abbiamo scelto arrivano da terreni su cui sono stati sparsi i gessi? È difficile, molto, molto difficile: “Ci sono regioni più severe su questo, come il Piemonte, che li ha vietati, e altre più permissive, come la Lombardia”, dunque la provenienza del prodotto può essere in qualche modo d’aiuto.
Purtroppo, non c’è però l'obbligo di indicare in etichetta l’uso di fanghi e gessi: “La legge non lo prevede, ma iniziano a spuntare diciture volontarie di aziende che sottolineano che per il loro riso non li utilizzano”. Non possiamo fare altro che cercare questi bollini e fidarci, oppure scegliere prodotti di agricoltura biologica o biodinamica (che cos’è?), in cui sono vietati a prescindere.
O anche comprare il riso da una delle 30 aziende del Pavese e della Lomellina che hanno aderito al progetto Carnaroli da Carnaroli Pavese, pensato per valorizzare un’eccellenza del territorio, un grano antico nato nel 1945 dall’incrocio tra le varietà Vialone e Lencino. Grazie alle sue qualità (che su Cucchiaio abbiamo già raccontato), è conosciuto come “il principe dei risotti” ma è anche molto imitato e contraffatto: l’idea di Coldiretti è quella di difenderlo e insieme di difendere i consumatori dalle fregature, sostenendo prodotti che arrivano da una filiera totalmente controllata. E dove fanghi e gessi non entrano nemmeno per sbaglio.
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