A scrivere un articolo come questo ci vorrebbe almeno una pertica di disclaimer, che non scriverò tanto lo so che siete tutti abbastanza intelligenti.
Ho passato anni a fustigare senza pietà la deriva dei prezzi nel mondo della birra. Facile immaginare quanti ettolitri di simpatia ciò mi abbia procurato nell'ambiente: peccato mortale parlare di prezzi, di utili, di marketing fumoso, per chi pretende di vendere emozioni e poesia liquide. È solo il gioco delle parti il mio, che in pochi sono in grado di capire, la parte di chi le birre le acquista e sogna un mercato davvero perfetto, economicamente parlando. Difendo la mia fazione. Il dato di fatto è uno solo: la birra, in Italia, costa troppo. Troppo per i redditi degli italiani contemporanei, troppo per il ruolo sociale che la birra riveste e deve rivestire, quello di bevanda popolare, dove popolare e qualità non sono per nulla in antitesi, ma proprio per niente.
Chi abbia beneficiato di questo extraprofitto è tema di discussione. Io, francamente, di birrai milionari ne conosco pochini: qualcuno c'è, e qualcun'altro si aggiungerà di qui a pochi anni probabilmente, ma due mani per contarli bastano e avanzano. I distributori e la loro corte commerciale? Beh, innegabile che se la passino bene, parecchio bene in molti casi, e non sempre vendono oro liquido. I publican? Anche qua, chi picchia coi ricarichi e ha il locale pieno perché conosce il mestiere si frega le mani, e ce n'è eccome, ma non è una regola comune a tutti, tanti altri galleggiano. Di beershop col conto in Svizzera, pochi davvero. C'è da dire che chi lavora bene è anche giusto che abbia il suo tornaconto.
Capita anche a me però di avere rigurgiti incontrollati, insospettabili, di prendere addirittura le difese della vituperata filiera birrofila dei prezzi. Quando? Di fronte al sempre più ricorrente appunto degli amici vinofili: eh però le birre costano troppo! Come fai a dargli torto? Proviamoci.
La terra costa, le stagioni, la grandine, il limite produttivo... tutto vero. La birra è un prodotto scalabile, fatto l'investimento in macchinari, ne puoi produrre quanta ti pare, più o meno: di malto ce n'è quanto serve, di luppoli pure, lievito idem, e la materia prima è ben più fungibile dell'uva. Il problema è la domanda, più che l'offerta, e il ciclo produttivo, più breve rispetto al vino, non si ferma mai. Quasi mai però, in Italia, i volumi prodotti sono davvero degni di nota, con annessi ammortamenti pesanti. Una volta ho chiesto ad un amico birraio delle principali fonti di costo, a scanso di equivoci: la prima, il costo del lavoro, è ancora equiparabile fra il settore birrario e quello vinicolo. È sulla seconda che si gioca l'arringa: le accise. Già, perché alla filiera di chi lucra sulla birra descritta sopra, manca il vero strozzino: lo Stato.
Difficile
districarsi fra tassazione su grado plato e quella su grado alcolico finale. Con qualche approssimazione e sintetizzando, possiamo dire che in Europa, fra i paesi che tassano la birra, l'Italia è a metà classifica dietro all'Olanda, alla Francia, ai paesi scandinavi, a UK e Irlanda e a qualche paese birrariamente poco significativo. Molti di questi sono paesi, quelli nordici in particolare, hanno notoriamente gravi problemi di alcolismo in tutte le fasce d'età e la penalizzazione di carattere sociale appare evidente. Altri paesi di lunga tradizione birraria hanno invece un'imposizione fiscale molto più leggera. C'è poi un altro blocco di paesi che rivaleggiano con l'Italia in questa classifica: gli altri amici mediterranei del club PIGS, cioè quei paesi coi conti pubblici messi peggio dei nostri e in cui la finanza pubblica raschia il barile ovunque riesce, accise comprese. Addirittura la Grecia, smembrata dalla crisi, riesce a proporre un'imposizione inferiore a quella italiana. Ciò che colpisce particolarmente è però il fatto che molti paesi prevedano comunque un'aliquota inferiore per i piccoli birrifici di carattere artigianale: una lungimiranza che in Italia resta un miraggio. Per il fisco italiano una multinazionale da milioni di ettolitri l'anno e un piccolo laboratorio artigianale sono la stessa cosa.
Cosa ti ventila lo Stato Italiano per rattoppare i buchi di bilancio che se ne escono col gioco delle tre carte della tassazione, tolgo di qui per aumentare di là, a cui abbiamo assistito in questi mesi? Ovvio, un bell'aumento delle accise, fra cui quella sulla birra di un bel 33%, che in fondo dal 2004 a oggi sono aumentate solo del 114%. Quantifichiamo il peso attuale: per una birra di 5% alc. siamo a circa 0.30 euro al litro di accisa sul costo di produzione. Il che, ai ricarichi standard di mercato, può facilmente arrivare a pesare 1 euro o quasi sulla pinta che vi bevete al pub o sulla bottiglia da 0.75 comprata al beershop. Ovviamente, per birre più forti, la situazione peggiora di molto. Con questa bella pensata dei nostri ministri tenetevi quindi pronti per un bell'aumento di altri 50 cents sul prezzo finale.
Qual è la baggianata che raccontano? Che questa è una tassa sull'alcool. Peccato che queste accise colpiscano solo un terzo del consumo di alcolici in Italia. E il vino invece quanto paga di accisa? Lo sapete già: ZERO. Quello che forse non sapete, come non lo sapevo io, è che persino un paese leader di mercato e da sempre attento alle proprie politiche commerciali come la Francia, dove mi riesce difficile credere che le lobby enologiche siano meno forti e organizzate che da noi, ha un'accisa seppur molto bassa sul vino. Evidentemente qui in Italia ce lo possiamo permettere, salvo poi pagare il carburante un prezzo folle, affossare un segmento alimentare in forte crescita come quello birrario ed altre quisquiglie che possiamo leggere sui giornali.
Non ce la faccio ad auspicare l'accisa su un prodotto tax free per evitare l'ennesimo rialzo su un prodotto già ipertassato, che di balzelli in un modo o nell'altro ce n'è per tutti. Però la disparità di trattamento grida vendetta, come grida vendetta la disonestà intellettuale della barzelletta sulla tassa sull'alcool. È ovvio che il paese ha un interesse a proteggere il settore vinicolo, ma a spese di chi? Di un settore in crescita, che impiega migliaia di addetti dalla produzione alla vendita, che vedrà una contrazione delle vendite, una crisi delle aziende più deboli, perdita di posti di lavoro, una diminuzione dei consumi e della produzione nazionale per ottenere grazie a tutto ciò - colpo di genio - pure un gettito di accisa probabilmente inferiore all'attuale? Aumenterà l'import di prodotti artigianali esteri e la produzione delle multinazionali si concentrerà verso altri impianti. I microbirrifici italiani più lungimiranti, già da tempo, stanno puntando fortemente sull'export verso paesi "ricchi" con redditi più elevati del nostro, in grado di sostenere l'elevato costo di produzione nazionale. La birra si avvia a diventare un prodotto di lusso, per l'italiano. Si avvia cioè a perdere la sua identità conviviale per diventare qualcos'altro, qualcosa di più triste ed elitario.
Basta tutto questo per giustificare certi prezzi? Manco per sogno. Il prezzo lo fa il mercato e il mercato vuole birra in questo momento, è cool, ed è disposto a pagarla bene, un buon multiplo del costo. Va ricordato però che per un birrificio che prospera ce ne sono decine che arrancano, per i motivi più disparati, a volte dolosi come l'inettitudine imprenditoriale di molti, a volte inevitabili come il nanismo produttivo e del mercato interno. Quando si fanno confronti fra prodotti diversi, che sono inevitabili e necessari, va ricordato sempre che le regole del gioco non sono però affatto uguali. La speranza è che magari, per una volta, quei cervelloni dei nostri legislatori si astengano dal danneggiare ulteriormente un settore già oppresso da tasse e da una burocrazia al limite del demenziale, andando a pescare quei soldi altrove, in qualche maniera più consona. Evitandoci anche la presa in giro della tassa sull'alcool: non esiste l'alcool buono, da proteggere, e quello cattivo che è giusto tartassare.