Quando la perfetta “mise en place” era solo un rito della domenica per le tavole dei più fortunati, e non era poi neanche tanto tempo fa, qui da noi in Sicilia si mangiava tutti insieme dalla stessa conca, una ciotola di argilla stagnata o di ceramica dipinta a mano, tonda e fonda, da cui i commensali pescavano il cibo a turno.
Come le mense per i Greci, o la tajine per i popoli del Maghreb, il piatto comune era la norma, e questo perfino in paese, quando ci si sedeva a tavola tutti insieme, padroni e lavoranti. In campagna, invece, spesso nemmeno il piatto si apparecchiava: la pasta - tagghiarìni, maccarrùna o busiàti fatti con acqua e farina di semola rimacinata - veniva cotta, condita con la salsa di pomodoro arricchita con l’estratto e una manciata di ricotta salata. Poi si versava su un’asse di legno, chiamata scannatùri perché era la stessa - o simile a quella - su cui si scannavano gli agnelli il Sabato Santo e la vigilia di Natale.
I tempi sono cambiati, è arrivata l’abbondanza, il sovrappiù e la tecnologia, e anche un po’ di mondo 2.0. Le tradizioni restano, per fortuna, a memoria dei giorni in cui “leccare la sarda” in otto strofinandoci sopra un pezzo di pane, era l’unico pasto che molti potessero mai avere. E ciò che una volta era necessità si trasforma oggi nel rito collettivo dello schiticchio, la grande abbuffata delle feste, di Pasquetta o di fine estate, dove la convivialità è l'ospite d'onore e il cibo diventa strumento di aderenza culturale e di piacere sensuale.
Si prepara la pasta, dunque, acqua e farina come da tradizione: la si stende col mattarello sullo scannatùri, la si taglia in forma di lasagnette, o tagliatelle, e la si fa asciugare un poco, perché non si attacchi. Il condimento è il solito, salsa fresca di pomodoro e ricotta salata, magari arricchita con un’abbondante padellata di melanzane fritte. Versata, come da tradizione, sullo scannatùri, da cui tutti attingono, tutti insieme. Si rinuncia persino alle posate, e la pasta si mangia direttamente dal tavolaccio, le mani dietro la schiena, ché solo può toccarsi con la bocca.
Si fanno le strisce di pasta, l’una accanto all’altra, come corsie in una corsa di 100 metri piani. Ciascuno alla sua corsia, e poi di volata fino alla fine della striscia, trattenendo il respiro.
Come lo stesso vino cambia d'aroma se versato in calici di forma e dimensioni diverse, così la pasta muta sapore se versata ancora calda sulla mensa di legno. E presa direttamente con le labbra e con la lingua, senza la mediazione del freddo metallo, rivela una consistenza differente, ed un sapore arcano. È scivolosa, fumante, stillante di sugo e piccante di pepe e di formaggio, fresca di basilico. Se ne respira il calore, col naso e con la bocca, in un'ebbrezza gioiosa che sa di mare e d'estate. E la sola vista di quell'abbondanza sul tavolaccio ne moltiplica il piacere.
Come nelle immagini di “Miseria e nobiltà” . Da provare, per capire.