Quando ancora i venditori non erano ancora una specie tutelata dal WWF, tentavo di insegnare agli aspiranti quella cosa disprezzata e sottovalutata che nei bei tempi andati si era arrivati ad definire "Arte della vendita". La nobilità della vendita, la dignità della vendità, la professionalità nella vendita e tutte quelle cose che mandano a casa i discenti felici e sorridenti.
Per spiegare alcuni concetti fondamentali della trattativa di vendita mi appoggiavo al linguaggio delle immagini: quelle più efficaci provenivano dai parallelismi con il corteggiamento, e l'amore. Data la consistente partecipazione maschile era facile strappare l'applauso quando, spiegando che la vendita si conclude con la firma sulla riga tratteggiata, volevo far comprendere che la conclusione arriva dopo un percorso: saltare le tappe garantisce alte percentuali di insuccesso. Come se, dicevo, chiedeste a una ragazza di salire in camera senza prima aver prima sciolto il ghiaccio. Ovvie le battute di casermaggio, i doppi sensi, le allusioni. Poi il messaggio passava, tutti si guardavano sogghignando sotto i baffi, e se in sala c'erano signore facevano ampi gesti d'assenso. Tutti felici.
Oggi vorrei parlare degli elementi che rimangono appiccicati all'ospite dopo essere stato al ristorante, e il paragone con le storie d'amore mi viene facile. Le cose che sono importanti, le cose che sono urgenti, le cose indispensabili, e quelle superflue ma decisive.
I piatti sono le grandi scelte di una storia importante: quelle che segnano la vita. Quelle che non hai bisogno di ricordare perché fanno parte di te. La cantina rappresenta i momenti spensierati: le vacanze, i giuochi, le esperienze. Li ricordi, o forse no: per altri motivi. Girano "attorno" alla storia, la condiscono, a volte imprimono frenate e accelerazioni, ma raramente sono il motivo definitivo del perché sì o del perché no.
Poi ci sono gli uomini di sala: che sono tutto il resto. Che sono l'ultima cosa che ti ricordi quando la storia è finita. Quelle cose apparentemente marginali ma che rimangono clamorosamente impresse nella memoria: fosse solo perchè sono l'ultima cosa accaduta. Tipo quando lui dava in escandescenze per quei tubetti di dentifricio schiacciati nel mezzo o lei sformava per le scarpe piene di terra dimenticate nel patio. Le storie finiscono, e possono finire bene e male. Con un saluto pieno d'affetto, ma arreso all'impossibilità di un'alternativa, o con il fiele dell'ambiguità, dell'incomprensione o del tradimento.
Ecco, mentre volti le spalle alla porta del ristorante ti porti via l'ultima nota: e non sono i sapori della cucina, e nemmeno gli aromi del vino. Ti porti via il sorriso sincero del cameriere, la stratta di mano del maitre. Ti porti via un'attenzione apparentemente superficiale o un piccolo gesto. Oppure ti porti via l'orribile sensazione di essere stato solo uno in mezzo alla fila, un numero da usare e scartare, l'indifferenza, la freddezza, l'indisponibilità. L'incuria e la superficialità, cioè la più velenosa forma di tradimento del personale di sala.
Questo pensavo, che il piatto è solo una delle componenti della felicità dell'avventore al termine della cena, e spesso nemmeno la più memorabile. Lo pensavo leggendo un messaggio di Beppe Palmieri, il più fumigante sostenitore dell'importanza di Sala e Cantina. Diceva: la
prima scuola di Sala e Cantina, ti interessa.
Mi interessa, ho pensato. Perché le cene e le storie d'amore finiscono sempre: Ma quel che resta, dipende.