Nei giorni scorsi, tra gli articoli del caustico e temuto critico milanese Valerio M.Visintin ha visto la luce la recensione di un ristorante fantastico: il "
Cardamomo" di Torre Legnanese, in cui il celebre Chef concettuale Vincenzo Prezzo manda in onda una cucina estrema, minimale, definitiva: la cucina cognitiva.
Io quasi ogni giorno mi maltratto (a parole) con il secondo miglior scrittore di cibo d'Italia: tanto che ho meritato la definizione di quasi-amico, e me ne vanto. E ancora di più mi vanto di essere categorizzato "alla maniera di" nella didascalia del ritratto di Prezzo. E' la prima volta che mi accade, e sento che sono già ingrassato.
Quello che il Visintin non sa, isolato nel suo autoesilio milanese, è che di ristoranti che rincorrono, ricercano i confini estremi della cucina che ne sono altri, che l'indegno sottoscritto ha [indegnamente] visitato. Astenendosi poi dal recensirlo, perchè sono ancora frontiere troppo avanti per essere condivise con il grande pubblico che non è ancora pronto.
Per esempio qualche mese fa sono capitato, su indicazione di un amico attualmente - purtroppo - confinato nel reparto Diagnosi e Cura di un famoso nosocomio lombardo, al "Ristorante che non c'è" di Stressate sul Serio. Ai non-fornelli un personaggio ai confini della realtà culinaria: Lugo Sibela. Un storia convulsa, estrema, spesso punteggiata di momenti dialettici con la gastronomia. Ma di certo non si può negare che Lugo non abbia portato avanti la sua ricerca inesausta di orizzonti là dove l'uomo non è mai giunto prima.
Appresi i rudimenti della cucina di refezione al riformatorio, redenta la sua immagine e pagati i suoi debiti con la società civile, ha iniziato un infinito giro del mondo nelle gastronomie minoritarie: dopo Myanmar, Laos e Botswana, ha praticato a lungo le cucine di Timor Est prima come lavapiatti e poi come aiuto dell'aiuto cuoco di un hotel Due Stelle di Dili.
Poi, raggiunta la maturità professionale con uno stage a Dubai, uno nello Yemen e una ferma volontaria nell'Esercito Svizzero come capopartita ai formaggi & latticini, l'esplosione. Visita le tribù di mangiatori di formiche dell'amazzonia peruviana, i premasticatori di grasso di foca Inuit, i denutrizionisti del Ladak. Poi finalmente l'apertura del non-ristorante.
In effetti l'approccio è spiazzante: il "Ristorante che non c'è" infatti t'accoglie con una sala completamente bianca, senza arredi e suppellettili. I tavoli e le sedie, bianchi, sono ben distanziati, mentre piatti posate e bicchieri sono disegnati a mano. Sul tavolo. Così come i mobili.
Lugo non indossa la tenuta da cuoco: veste completamente di nero come i mimi esistenzialisti degli anni sessanta. Quando ti siedi ti offre il menù, in cui è possibile anche chiedere quale personaggio lui debba interpretare. Il cuoco finto francese, il pizzaiolo napoletano, il trattore di trastevere.
L'hotdoggaro di Brooklin. Se ci sono più non-commensali, ogni volta si cambierà d'abito prima di consegnare le non-portate.
La non-cucina, completamente a vista, è anch'essa totalmente bianca, e fornelli e arnesi disegnati a mano come tutto il resto. L'unica cosa reale sono pentole e padelle, che vengono agitate da non-cuochi interpretati da attori. In realtà - confessa Lugo - gli attori sono operai dell'Azienda Gas Acqua comunale in cassa integrazione che integrano il magro stipendio: ma si sa, dice alzando un sopracciglio, la crisi è impietosa con i locali d'alta avanguardia.
I non-piatti vengono consegnati ai non-commensali, ai quali viene chiesto di proiettare nella pietanza la loro potenza espressiva, la forza della propria mappa organolettica, tutto il proprio retroterra culturale. Ad esempio l'[indegno] scriba ha ordinato una difficile combinazione di non-paccheri di farina di pane dell'albero del pane, ripieni di una mousse di trippe di cervo volante con e ragù di caribù essicato. Sopra tutto la concretezza della lessa del fiume Po.
In effetti mentre non-mangiavo il non-piatto ho provato la straordinaria sensazione di costruire davvero un mio sistema di riferimento gustativo, una danza di sapori perfetta, un giuoco di consistenze inenarrabile. Alla fine alzando gli occhi dall'ultimo non-boccone ho incontrato lo sguardo benigno dello chef, che mi ha porto una delle sue esternazioni iperuranie: "tutto bene?"
Un'esperienza ai limiti dell'esperienza che si giustifica con l'estrusione mentale del nostro passato gastronomico: una dejezione propriamente intellettuale, che prescinde dall'attraversamento fisico e sensoriale del nostro corpo da parte del cibo, facendosi puro
noumeno.
Curiosamente, l'unico aspetto concreto il conto: fisso a 200 euri tondi. Per raggiungere i confini dell'universo gastronomico, nemmeno tanto.