Lo scatolone colorato con le banane appese sotto che ha preso il posto dei traghetti nell'Egeo lascia percolare i viaggiatori attraverso i suoi pertugi, spetazzando ormeggiato al porto di Santorini. Par d'essere più sul Bosforo che in Europa: guardo commosso il recinto delle grida, dove i procacciatori confinati da una riga dipinta a terra clamano le valentìe dei loro alberghi, cercando di attirare l'attenzione con ululati, cartelli scritti a mano o con stampanti laser economiche, stampe colorate.
Tardo un minuto o due ad alzare lo sguardo al bordo della pentola che racchiude il mare interno: l'ho visto tante volte in tante pose, ma nulla mi ha preparato per questo. Trecento metri di palta colorata, verticale, e sopra un merletto bianco che taglia lo sguardo e lascia appesa l'altra metà dell'universo al cielo lucido, smaltato di quel blu cicladico che solo in lontananza s'offusca dei fumi del caldo.
Ma della Caldera parleremo altrove: oggi è il momento dell'epifania, di quando scopri che la vite è una delle quattro piante endemiche di Santorini: fichi d'india, fichi, pistacchi. E viti.
In realtà è il conducente del pulmano che le indica: devi aguzzare la vista per renderti conto che quel cespuglio spettinato è uno gnomo di vite. Stanno lì piantati a spaglio, verdeggiando tra la cenere, la sabbia di pomice grigia e i frammenti di lava nera come una dichiarazione di fatica e cocciutaggine.
A Santorini piovono 220mm d'acqua all'anno. A Santorini soffia sempre un vento teso e nodoso, fitto di sabbia di giorno e di sale di notte. A Santorini il sole è un crogiuolo incandescente che rovescia sui 75 chilometri quadri della mezzaluna una colata d'oro e metalli al punto di fusione. L'unico modo per difendere i grappoli è ricorrere ad una forma d'allevamento unica al mondo: la chiamano a canestro, e consiste nello schiacciare a terra la pianta arrotolandola in una spirale larga un cubito, che cresce giro dopo giro fino a rassomigliare appunto - nel periodo spoglio - ad un paniere. I grappoli spesso sono poggiati al suolo, e questo impedisce una corretta e completa maturazione degli acini, che a tratti raggrinziscono anzichè maturare. Inoltre il canestro raccoglie la rugiada notturna, unica forma di umidificazione presente. La rugiada è ricca di sale che si giace sugli acini e a poco a poco li penetra: per quello l'ultima goccia dei bicchieri di Santorini è pura acqua di mare.
Un numero incredile di varietà popolano l'isola, anche se il 70% dei 1400 ettari è coltivato ad Assyrtico (Asirtico). Hanno nomi che suonano come passacaglie ottomane: Mavrotragano, Voudomato e Athiri; Aidani, Katsano e Gaidouria, Agiorgitiko e Mavrathiro, magari ognuno per poche unità conservate testardamente dalla manciata di produttori dell'isola. Realtà da 5.000, ma anche 200.000 bottiglie strappate ad una produzione irrisoria: le piantine mandano a maturazione uno o due grappoli stenti, una media di due chili per metro quadrato. Piante vecchie, vecchissime: anche 150 anni, anche più, perchè a Santorini non c'è fillossera.
La vendemmia inizia a metà agosto, è completamente manuale: i pochi operatori, tutti mediamente avanti cogli anni, più che chinati sono proprio piegati in due anche nei pochi impianti d'architettura più moderna in cui si stanno cimentando i produttori. I giovani stanno più su, nelle attività turistiche.
Le uve sono raccolte in cassette di plastica rosse e blu, all'alba. Sono trasportate a mano, a volte con i muli. Tutto ha un sapore arcaico: il vino pare stillare come sudore nelle antiche cantine sotterranee. Magari pensi ad un'arcadia vinoverista: ma no, la tecnologia è utilizzata a piene mani, sia per le cantine di impostazione industriale, sia per quelle artigianali, dove iniziano a sussurrare le prime voci biologiche, le prime vinificazioni "naturali": per gravità, seppur con il controllo della temperatura.
E' un'intera panoplia la miniera enologica dell'isola, in cui scaveresti più volentieri che arrostirti le piante dei piedi sulle spiagge nere di Kamari. Ad esempio per appropriarti delle sfumature delle varie espressioni del rustico, diffusissimo ma non meno seducente Nichteri, da sole uve Asirtico: non privo di qualche brivido macerativo, è la perfetta espressione del vulcano - cenere e miele - e il sale ovunque.
Poi la sequenza dei varii Santorini bianchi; i rosè intensi e i rossi impervi, tra cui il Brusko - forse un'eredità veneziana - che in realtà è un vino amabile. E infine quello che qui credono sia il loro tesoro, il Vinsanto.
Il Vinsanto è spesso, concentrato, untuoso; dolce e nervoso, non ha molti altri punti in comune con i Vinsanto italiani, anche se l'impianto li ricorda. Si ottiene per torchiatura (come il Vinsanto di Vigoleno, per dire) ma con uve appassite a terra: lasciate sotto il sole sul cemento, vengono girate ogni giorno fino ad ottenere una rugosità spinta. Il lavoro è manuale. Prezioso, costoso - si parla di rese veramente arcigne - abusato: potrai assaggiare un nettare di cui portare il ricordo sulle papille in tutta questa e nella prossima vita, o vinelle sciocchine dilavate e piatte, da raccontare al turista ansioso di fare la fotina al tramonto di Oia
(si dice ìa, si dice).
Vorresti esplorarne gli anfratti, come vorresti misurare il bordo frattale della Caldera. Ma ci sarà tempo di tornare.