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Un’erba spontanea, un cibo dimenticato e quasi scomparso. I paccasassi crescono sul Conero, la montagna sul mare, ma raccoglierli è vietato. Da quando li abbiamo scoperti non smettiamo di parlarne, dei paccasassi, della mortadella e di Moby Dick
Questa storia comincia con un panino con la mortadella, che è già un bel modo di iniziare. È un ricordo d’infanzia: dentro al panino c’era sì la mortadella ma anche un vegetale con un nome che sembra uscito dalla fantasia di un bambino, i paccasassi.
Si tratta di una pianta mediterranea che cresce sul Conero, le sue radici si insinuano tra le rocce e sembra le spacchino. Cresce sulle scogliere a ridosso del mare, ma non nell’acqua. La tradizione popolare sceglie un nome dialettale e fantasioso, in italiano diremmo finocchio marino.
Un’erba spontanea, aromatica che sa di mare, origano, cappero, da non confondere con la salicornia. Non cresce solo qui, la troviamo anche in Puglia e in Sardegna. Ma qui, sulla grande montagna sul mare, il suo consumo ha radici antiche, è legato alla vita dei marinai, che usavano i paccasassi per combattere lo scorbuto, grazie al loro apporto di vitamina C, polifenoli e Omega 3.
Ma i marchigiani non erano gli unici a servirsene per questo scopo, infatti i paccasassi sono citati in Moby Dick e nel Re Lear proprio come medicamento per i marinai, disposti ad affrontare le difficoltà del procurarseli pur di riempire le loro cambuse della preziosa erba.
Anche oggi sono parte della cultura gastronomica di questa regione, si trovano come ingrediente in molte proposte, più o meno tradizionali, dei ristoranti locali. Sul Conero però raccoglierli è vietato e così…
Torniamo alla mortadella e a Luca (il bambino del panino) Galeazzi che insieme a Francesco Velieri, entrambi tecnologi alimentari, cominciano a coltivare i paccasassi. Sono gli unici a farlo, almeno in modo non orticolo, e lo fanno con cura e sapienza. La sede di Rinci, l’azienda, dove il prodotto dopo la raccolta viene trasformato, è a Castelfidardo (il paese delle filarmoniche), mentre i campi sono a Camerano (il paese che ha sotto un meraviglioso labirinto di antichissime grotte).
“A Camerano perché la coltivazione va fatta sul Conero, dove i campi simulano botanicamente il terreno più adatto. Sono in pendenza per non far stagnare l’acqua e non vengono mai irrigati. Le piantine dei paccasassi sono resilienti, durano dai 5 ai 7 anni, crescono in campo aperto, senza ombra, in biologico con il solo metodo della pacciamatura (il terreno viene ricoperto con uno strato di materiale che lascia uscire solo la pianta n.d.r.) per proteggerli dalle erbe infestanti”. Ma “l’ambiente va preservato” – ci tiene a sottolineare più di una volta Claudia Gonnelli, responsabile marketing e commerciale, guida della nostra visita nei campi a Camerano – “qui non vogliamo costruire capannoni, questa terra ci ospita e noi ci muoviamo scomodi con il camioncino piccolo ma ne vale la pena”.
E ancora “I paccasassi soni preziosi, la raccolta è manuale, per proteggere il prodotto che verrebbe danneggiato dall’utilizzo di macchinari e per salvaguardare l’ambiente. Si fa da seduti, poco alla volta perché la terra è bassa, come si dice, si inizia alle 5 e si finisce alle 11. Lavorano tante persone per accorciare i tempi di raccolta e concentrare la fatica”.
Si presentano come rametti, con delle foglie carnose perciò sono consistenti all’assaggio, il loro utilizzo dà un contributo unico a un piatto. Nel processo di lavorazione vengono prima marinati nell’aceto e poi conservati nell’olio extravergine, dunque trattengono una nota acidula molto piacevole. Sanno di mare ma non come un’alga wakame perché ci troviamo combinata la terraferma su cui crescono. Sono saporiti, sapidi, aromatici e ricordano il finocchio e la carota (per questo piacciono molto alle volpi). E poi ognuno ci trova qualcosa, dal cappero all’aneto, è piacevole indagarne la somiglianza con sapori più familiari.
Tradizionalmente si servono nella crescia, sulla mortadella, e così li abbiamo voluti assaggiare anche noi, oppure sulla pizza o sui crostini per l’aperitivo. In realtà offrono molte opzioni: con il salmone, sulla tartare di manzo, nella zuppa di legumi o, come ci confida Claudia, il suo comfort è “piadina con farina di ceci, salmone affumicato e paccasassi”. Danno una spinta anche ai piatti vegetariani e vegani, ma stanno comodi sul pesce. La loro nota acidula ingentilisce il grasso.
È facile immaginare la sperimentazione vedendoli e assaggiandoli, sono esteticamente piacevoli ma non solo decorativi, danno un contributo al piatto che ha entusiasmato chi in redazione non li conosceva. Ci è piaciuto scoprire un prodotto dimenticato e salvato da una scomparsa definitiva, conoscere la storia e scoprire l’audace convinzione di questo gruppo di giovani marchigiani che hanno voglia di raggiungere il mondo a suon di paccasassi. Avevamo detto che era una storia no? Una bella storia.
Oltre al prodotto in purezza, l’azienda produce il pesto di paccasassi che vedete nell’immagine, la maionese vegana, la senape, sughi e salse impreziosite dal gusto unico di quest'erba
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