Devo proprio dire di essere fortunato ad aver scelto quasi trent’anni fa questo singolare “mestiere” di cronista del vino. Se non l’avessi scelto, “tarantolato” da un’intervista nel marzo del 1983 a Gino Veronelli, mi sarei perso non solo i tanti buoni o grandi vini che ho assaggiato (nonché i molti grami), ma un’infinità di emozionanti incontri, di quelli che ti scaldano il cuore e danno senso e linfa al tuo agire, con le tante persone stupende che rendono unico, nonostante tutto, il mondo del vino.
Facevo questa riflessione domenica 17 febbraio, nell’incanto di uno dei borghi più belli del mondo, San Gimignano, e del suo angolo più magico ed emblematico, l’alta collina di
Montenidoli. Proprio qui una grande, tenace e coraggiosa donna,
Elisabetta Fagiuoli, e quel fortunato uomo che è stato il suo compagno per 45 anni, Sergio Muratori, hanno non solo prodotto grandi e veri “vins de terroir” (e che terroir unico!), vini di una purezza assoluta, ma dimostrato come il produrre vino possa elevarsi a testimonianza d’amore per la terra e per la vita, ad espressione culturale, ad opera di poesia.
Lo scorso 19 ottobre Sergio -Sergio il Patriarca come gli amici amavano chiamarlo - ci ha salutato, lasciando il suo spirito a presiedere questo angolo di paradiso, ma Elisabetta continuerà ad onorare il suo ricordo e la sua lezione di vita con vini ancora più sinceri. Ancora più espressione schietta di quei vigneti letteralmente strappati ai boschi, posti su antichissimi e incontaminati terreni calcarei e ricchi di fossili, vini veramente naturali da sempre, ben da prima che nascesse la moda di definire naturale un certo modo di fare vino.
Lo dimostra, smagliante come non mai, l’edizione 2012 - imbottigliata lo scorso 10 gennaio - di uno dei vini simbolo di quest’azienda, vino che Elisabetta ama definire
“lo Champagne dei poveri”:
“un momento di felicità, lontano da bianchi e da rossi, da etichette e conformismi. È l’aperitivo che apre gli animi alla comunicazione, è il bicchiere che toglie la sete, è un momento di riposo e di distensione”. Un vino che viene volutamente messo in bottiglia giovane
“per essere colto sul nascere, ancora ricco di effervescenza della recente fermentazione e per portare a chi lo beve tutto il suo brio e la sua giovinezza”.
Anima di questo vino che porta orgogliosamente in etichetta la dizione
Sono Montenidoli per ricordare a tutti essere espressione diretta, figlia di questa terra, è un vitigno complementare della tradizione chiantigiana, il
Canaiuolo che, come racconta Daniele Cernilli nel suo agile ed interessante libro sui Vitigni del mondo (Edizioni La Conchiglia, Capri), prenderebbe il nome dall’espressione latina “
caniculares dies”, i caldi giorni d’estate in cui le uve cambiano colore.
Elisabetta e Sergio hanno scelto queste uve che hanno i profumi del bianco, il colore del rosso e la sostanza delicata ma ben sottolineata delle uve rosse, per
un rosato speciale, che io considero uno dei cinque - ma che dico, tre - migliori rosati italiani in assoluto. Un
“mosto fiore che fermenta a lungo e che è messo in bottiglia non appena ha finito gli zuccheri, per conservare la sua freschezza” e che quando bevi per la prima volta te ne innamori. Come capita nella vita con certe donne speciali, uniche, che cambiano l’inerzia del tuo esistere e ti conquistano d’imperio con la loro eleganza e la loro forza, con uno
charme assoluto che è grazia, delicatezza e volontà.
Cosa sia questo Canaiuolo rosato 2012 è presto detto, un capolavoro enoico che abbina fragranza, armonia, ricchezza di profumi e nitidezza d’espressione ad una piacevolezza di beva totale. Come capita alle grandi opere che comunicano grazie al linguaggio della semplicità che si fa verità.
Colore rosa pallida di bosco, (quest’anno, causa della stagione molto calda, dice Elisabetta, forse un po’ più accentuato del solito, quando assume un colore pastello appena sfumato e la delicatezza cromatica di una cipria), quasi un salmoncino leggero, brillante, luminoso, splendente; e poi un profumo, una coreografia di sfumature aromatiche in chiaroscuro: rosa, piccoli frutti rossi di bosco, mela appena tagliata, erbe aromatiche, agrumi, e poi sale e pietra a iosa e tanti fiori bianchi, a costituire un bouquet prezioso, ineffabile, di naturale e inarrivabile eleganza. Un naso ricco ma mai prepotente, soave, intenso, pieno di striature che si rincorrono con contagiosa felicità nel bicchiere. Ampio, per coglierne tutta la fragranza. Un solo sorso ed è
coup de foudre, innamoramento
way without return: bocca succosa di frutta appena colta, polputa, croccante, spalla ben sostenuta, nervosa persistenza, eppure quasi immateriale, ineffabile, dalla consistenza leggera di un sogno, merito di un grande sale, di una magnifica acidità vibrante, di una mineralità assoluta, che dà nerbo vibrante al vino, energia infinita, e uno stupendo equilibrio. Con quella leggera mandorla fresca, sul finale, che conferisce un ulteriore scatto, in una cornice di calibrata secchezza, verticale, profonda, ad un vino memorabile.
Un vino avvolgente come la vera amicizia, come l’abbraccio della donna (dell’uomo, donne che mi leggete) che avete e avrete sempre nel cuore…