Più di vent'anni fa ero giusto uscito dal tunnel del Rosatello Ruffino, ma mi piaceva già - e molto - scapiccolarmi su e giù per l'Italia. Appena finito il militare s'era con quattro soldi in tasca, e tutto si misurava: quindi una vacanzina fuori stagione di qualche giorno in Umbria era un autoregalo di un certo pregio. La mia attrazione fatale per le cose buone aveva già attecchito, sottopelle: mancava spesso la materia prima per darle corpo. Quella volta - lo ricordo ancora - una cena alla Fornace di Mastro Giorgio a Gubbio fu un'emergenza sensoriale. La sera dopo, alla Loggia di Narni - che oggi mi pare non esista più - oltre al Farro scoprii anche il Rosso di Montefalco di A.Caprai. Il giorno dopo, ovviamente, mi inerpicavo per le stradette del paesello del Sagrantino. In bottiglieria questa, che divenne mia dopo brevissima esitazione.
Per moti versi non avevo mai trovato l'occasione giusta per un passito di tal fatta: poi era diventato un cimelio, e come tale aveva acquistato un valore superiore a quello fungibile: intoccabile.
Poi venne l'occasione: scorrendo la rastrelliera mi dico chissà com'è. Prendo e apro.
La prima cosa curiosa è questo colore di vinaccia ammattonato, se vuoi più infittito da depositi antichi che teso di materia.
Il naso è soave, dolce, ricco di note marazzate di liquori fatti in casa. Nocino, se vuoi, e tutti gli zuccheri alcoolici. Ecco questa vivida pulizia. Eccolo vivido e fulgido, ancora diritto.
Pur nell'assaggio il sorso si trascina un corpo ancora polputo, rosso assai e zuccheroso, con il tratto sciroppato sorpreso e soverchiato da tannini consistenti seppur vellutati, sottili, fini, lunghissimi. Alta anche la seconda parte del sorso, decisa a restare.
Bicchiere commovente, seppur nella parte conclusiva della sua parabola.