Sì, il 2020 è stato davvero l’anno della non-carne: ecco perché ora la fanno tutti e che cosa succederà dopo

Era un prodotto di nicchia, ora la vogliono tutti: in poco più di un anno le vendite della carne vegetale sono schizzate alle stelle, creando dal nulla un mercato da decine di miliardi di dollari

Alla fine del 2020, la rivista Time ha incluso l’Impossible Pork, il maiale a base vegetale, fra le 100 migliori invenzioni dell’anno. Ma questa storia inizia prima, esattamente un anno prima, verso la fine del 2019, quando i burger di carne vegetale creati proprio dalla californiana Impossible Foods sono stati messi per la prima volta in vendita in America. Passa per la fine di quello stesso anno, con i prodotti della rivale Beyond Meat arrivati anche in Italia, e poi per la primavera e l’estate dell’anno scorso, quando la pandemia e il coronavirus hanno dato una gigantesca spinta alla diffusione di queste alternative plant-based, tanto che a giugno qui sul Cucchiaio profetizzammo che il 2020 sarebbe stato l’anno della non-carne (per rileggere l'intero articolo: Il 2020 e il boom  della non carne). Come in effetti è stato.

Secondo una recente ricerca condotta a livello mondiale da Fmcg Guru, società specializzata nell’analisi del mercato alimentare, nel 2020 quasi il 30% dei consumatori si è indirizzato verso alternative plant-based ai prodotti di derivazione animale; inoltre, più del 20% ha detto di volerne mangiare di più e di questi oltre il 30% si è detto pronto a consumare in particolare proprio più non-carne nel corso del 2021. Un trend confermato dalla penultima trimestrale del 2020 di Beyond Meat, l’unica fra le grandi compagnie del settore a essere quotata in Borsa: i ricavi dalle vendite al dettaglio sono cresciuti del 39% rispetto al 2019 e in totale di quasi il 3%. Pur in un anno in cui i lockdown hanno costretto alla chiusura i ristoranti, le pizzerie e le catene di fast-food.

Questo ha avuto conseguenze benefiche anche sugli animali, come sottolineato dall’associazione World Animal Protection, secondo cui, considerando solo il mercato nordamericano, quasi 1 milione di capi di bestiame sarebbero scampati al macello grazie al cambiamento delle abitudini alimentari delle persone. Per avere un termine di paragone e anche ribadire quanto sia cresciuto il mercato della carne vegetale, nel 2019 grazie alle alternative plant-based vennero salvati più o meno 250mila animali: da un anno all’altro, l’incremento è stato del 279%.

Un milione di animali sembrano tanti, e in effetti sono tanti. Ma in realtà non sono tanti: ogni anno, nei soli Stati Uniti, ne vengono macellati circa 150 milioni, esclusi i volatili. Ma comunque che siano tanti o pochi non importa, perché i motivi di questo successo non sono legati (solo) all’amore per loro. Sono altri, e sono piuttosto chiari.

Le 2 ragioni (più una) di un successo annunciato

A ben guardare, sono principalmente due le molle che hanno portato al boom di questi prodotti e i consumatori verso la riduzione del consumo di carne e più in generale degli alimenti di derivazione animale. Anzi, sono tre (ma l’ultima non dipende da noi).

Innanzi tutto, la Covid-19 e il coronavirus: da un lato, la pandemia e le sue origini, legate alle abitudini alimentari anche nostre (ne abbiamo parlato nell'articolo: Aviaria, Sars, Mers, H1N1, Covid-19: ecco perché tutte le epidemie più pericolose sono nate negli allevamenti), hanno fatto nascere nei consumatori parecchi dubbi sulla provenienza della carne che mettono nel piatto, che magari arriva da qualche gigantesco allevamento chissà dove nel mondo; dall’altro, negli Stati Uniti come in Germania e in altre parti d’Europa, la produzione di quella stessa carne è stata interrotta a più riprese, con i mattatoi diventati pericolosi focolai di contagio (il perché, sul Cucchiaio, l’abbiamo spiegato qui: Robot nei mattatoi e piantagioni di grilli coltivati dalle macchine: il futuro della produzione di cibo è già qui). E quindi i consumatori hanno iniziato a cercare altrove quel gusto che tanto amano.

Poi c’è la questione ambientale e dell’impatto altamente inquinante che ha la produzione del cibo (abbiamo visto come nell'articolo: Quello che mangiamo è quello che inquiniamo: così la nostra alimentazione influisce sulla nostra “carbon footprint”), di cui sempre più persone in tutto il mondo si stanno accorgendo. È un problema noto da tempo, ma che negli ultimi 2-3 anni ha attirato un’attenzione crescente, fra report sul surriscaldamento globale e l’andamento delle temperature, dati sull’occupazione del suolo e sul consumo dell’acqua e giornali di tutto il mondo, dal Guardian al Financial Times, dal New York Times a Forbes, che senza mezzi termini e a più riprese hanno titolato che “dobbiamo smetterla di mangiare carne”. O comunque mangiarne molto meno. Perché? Perché i giganteschi allevamenti da decine di migliaia (o centinaia di migliaia) di capi di bestiame, messi tutti insieme, sono la seconda fonte di inquinamento sulla Terra (la prima sono i combustibili fossili), responsabili secondo la Fao del 15-20% dei gas serra emessi nell’atmosfera.

Questo, anche questo, ha portato, sta portando e sicuramente porterà in futuro sempre più persone a provare a ridurre il loro consumo di carne, spingendole verso regimi alimentari come quello reducetariano o flexitariano (che infatti abbiamo inserito fra i 12 trend alimentari del 2021 nel pezzo su Che cosa mangeremo (e come) nel 2021? 12 tendenze e novità dell’anno post-pandemico): si stima che dimezzare il consumo di proteine animali, magari evitandole totalmente per un paio di giorni alla settimana, permetterebbe a ognuno di noi di tagliare di più del 40% l’impatto ambientale dell’alimentazione.

L’ultima ragione del boom del cibo plant-based non è merito dei consumatori, non arriva da noi ma dalle aziende ed è legata ai soldi, al business, al profitto. Perché se il “grosso” dei guadagni ancora non sta lì, è lì che sta andando. Ed è da lì che arriverà presto. E nessuno vuole farsi cogliere impreparato.

Tutti sul carro della sostenibilità

Negli ultimi 6-8 mesi, sono state tantissime le compagnie che hanno fatto “il grande salto”, magari anche dopo una tradizione centenaria che le ha viste impegnate in tutt’altro: sul Cucchiaio vi abbiamo già raccontato delle americane Tyson Foods, Kellogg e Perdue, che hanno dedicato parti importanti dei loro budget per sviluppare prodotti a base vegetale (Il futuro della non-carne passa dalle stampanti 3d. E dalle cellule delle mucche), di Findus e delle sue salsicce Green Cuisine, di Ikea che ora vende anche una versione vegana delle sue celebri polpette e della brasiliana Jbs, il più grande produttore di carne al mondo (parte della produzione è destinata pure all’Europa, Italia compresa), che ha creato il marchio Planterra Foods e un linea di prodotti a base di legumi che riproducono il gusto del chorizo.

Ma c’è di più, parecchio di più: c’è McDonald’s che è pronta a mettere in vendita burger e crocchette vegetali (su Cucchiaio l'avevamo raccontato con l'articolo Non-carne anche per McDonald’s: dal 2021 arriva la linea di burger e crocchette McPlant), Burger King già lo fa da tempo, Nestlé che ha prodotto il Vuna, tonno creato partendo dalle proteine di piselli (che abbiamo visto in Perché il pesce vegetale è il futuro e perché lo fa anche Nestlé), e debutterà in Cina con il non-maiale Harvest Gourmet, Unilever che nei prossimi 5-6 anni prevede di fatturare 1 miliardo di euro dalla linea di prodotti Vegetarian Butcher, la Germania che vuole dire addio ai celebri bratwurst per sostituirli con le loro versioni veg, il Giappone che sta iniziando ad accettare il consumo del wagyu vegano e molto, molto altro ancora.

Come detto, i motivi di tutti questi cambiamenti partono (soprattutto) da noi, per ragioni sanitarie, etiche ed ecologiche, arrivano alle aziende e da lì ripartono. Per scopi decisamente più prosaici, ma altrettanto efficaci: attualmente, il valore del mercato della non-carne si aggira intorno ai 10 miliardi di dollari, ma le previsioni per i prossimi 5-6 anni lo danno in crescita sino a quota 20 miliardi, se non addirittura oltre i 30. E anche se ancora non c’è confronto con il valore del mercato della carne tradizionale (che supera i 1000 miliardi), i tassi di crescita sono impressionanti, soprattutto per un business che un paio d’anni fa praticamente nemmeno esisteva.

E adesso che cosa succederà?

Quello che si può immaginare adesso, considerato quello che è successo sin qui, è che questo settore continuerà a cambiare, probabilmente alla velocità cui l’ha fatto sinora. La prima “novità” è sicuramente quella più gradita a noi consumatori, perché riguarda l’abbassamento del costo di questi prodotti, in particolare della non-carne: un anno fa, al loro arrivo nei supermercati italiani, questi burger hi-tech costavano poco meno di 5 euro l’uno, mentre ora sono scesi intorno ai 3,5. E negli Stati Uniti costano ancora meno, intorno al dollaro e mezzo ciascuno.

E poi? E poi si guarderà oltre, iniziando dalla carne riprodotta con le stampanti 3d partendo da ingredienti vegetali o misti e da quella “coltivata”, cioè realizzata partendo dalle cellule delle mucche, fatte crescere in laboratorio sino a diventare bistecche. Sono (entrambe) più vicino di quello che si potrebbe immaginare: quando li abbiamo intervistati, i loro creatori le hanno promesse per la primavera del 2021 (ne: I segreti di carne stampata e carne “coltivata”: ecco come la fanno quelli che la fanno) e di recente Singapore ha dato il via libera al consumo proprio della cosiddetta “clean meat”, cioè fatta senza macellazione e senza inquinamento.

Meno “tecnologica”, ma forse anche più interessante è la carne “blended”, quella che nasce dall’unione, per esempio, di manzo e funghi o di maiale e cavolfiore: in Italia ancora non è in vendita, ma negli Stati Uniti sì ed è utile per ritrovare il sapore della bistecca senza bisogno di aromi, additivi e simili e insieme per ridurre l’impatto inquinante di quello che si mangia.

Insomma, quella dell’alimentazione sembra davvero la nuova Silicon Valley (abbiamo visto il perché in: Oltre la Silicon Valley: 7 start-up del cibo da tenere d’occhio), con la tecnologia e il progresso che influenzano e modificano e condizionano quello che mangiamo e mangeremo. E anche lo migliorano.

Emanuele Capone si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova, è nella redazione Web del Secolo XIX e scrive di alimentazione, tecnologia, mobilità e cultura pop.

Immagine di apertura Veg News

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