Chi sia Teo Musso immagino non debba certo stare a raccontarvelo io. E se fra i pionieri e padri fondatori del movimento birrario italiano è quello più noto una ragione ci sarà pure: questione di carisma, di intelligenza, di successo. Oggi è ricercato e adulato da blog, stampa e televisione, dal grande pubblico insomma, quanto snobbato dalla frangia degli appassionati più duri e puri. Come non fui teomussiano di stretta osservanza agli albori quando tutti i cherubini intonavano gli osanna, allo stesso modo mi lasciano oggi un po' perplesso certi giudizi radicali che serpeggiano nell'underground dove abitualmente sguazzo. Certo, la costanza qualitativa non è un'opinione ed io non sono un consumatore così fedele da poterne fare una statistica, ma la verità a mio parere è che mentre le birre di Baladin sono rimaste fedeli alla visione iniziale del suo creatore, morbide, eleganti, gastronomiche, costruite sui toni maltati e su cereali diversi, non banali ma accessibili, il mondo della birra artigianale ha preso invece negli ultimi anni una strada radicalmente diversa e lontana dalle corde di Teo Musso, quella del luppolo, e questo gli ha alienato l'attenzione di una parte dei giovani appassionati dell'ondata birraria più recente. Diceva lui stesso poco tempo fa di come molte delle birre artigianali oggi in circolazione si assomiglino e siano un po' noiose, molto uniformate sullo stesso canovaccio, ed è difficile dargli torto. Che poi molte di queste birre siano comunque ottime è un altro paio di maniche... Le birre di Baladin possono risultare poco allineate al palato dell'appassionato contemporaneo, ma piacciono sicuramente a un pubblico più vasto e sanno ancora sedurre chi abbia l'apertura mentale per uscire dai leit motiv un po' muscolari degli ultimi anni, di successo ma forse un po' logori. Poi, per non scadere nell'elegia, non ci siamo certo dimenticati delle cuffie sui fermentatori, delle Sour Editions, del formato grande che ha monopolizzato un decennio, del prezzo e del posizionamento di mercato poco popolare: nel bene e nel male, hanno fatto parte del gioco.
Poi un giorno stappi una bottiglia come questa e improvvisamente le chiacchiere stanno a zero: qua si gioca un'altra partita, un campionato differente, rarefatto, e tutto il resto appare così lontano laggiù in basso. Non è solo la summa di un manifesto birrario personale, qua ci troviamo di fronte a un'idea completamente nuova, una meta-birra, qualcosa di diverso e a suo modo rivoluzionario, realizzato in maniera compiuta, esatta. Tre gli "ingredienti": la base Xyauyù, birra forte, nobile, dolce, l'infusione di tè Lapsang Souchong, nero e affumicato, e il passaggio in botti che hanno contenuto whisky di Islay.
Andiamo con ordine: Xyauyù è il progetto di "birre da divano" - definizione sorniona che ne dà Teo Musso - partito parecchi anni fa ed entrato nell'Olimpo birrario. È un Barley Wine molto forte, elegante, macro ossidato. Cosa voglia dire "macro ossidato" e come avvenga l'ossidazione non mi è chiaro e si sono sentite in passato speculazioni: non so se sia un segreto e io - shame on me! - non l'ho chiesto, immagino che l'ossidazione venga in qualche modo indotta e forzata e il risultato, quel che conta, è notevole. La maturazione richiede comunque 12 mesi. Avrei da ridire sulla classificazione come Barley Wine: per quanto sia una categoria sufficientemente flessibile e comprenda le birre più forti, un Barley Wine è in genere ben più amaro ed attenuato negli zuccheri. Qua invece ricadiamo, anche per filosofia di prodotto, in una Old Ale, per quanto atipica nell'elevato contenuto alcolico: birra mordida, poco attenuata, a prevalenza dolce, di lunga maturazione - le Stock Ales della antica tradizione britannica. Non è una mia idea peregrina: mi sto rifacendo alla lezione del grande Michael Jackson - not that MJ - quando espresse identica considerazione rispetto alla classificazione della famosa Thomas Hardy's Ale, con la quale la Xyauyù condivide una certa parentela. Quisquiglie, sia chiaro. Il Lapsang Souchong è uno stranoto tè affumicato cinese e credetemi non è esercizio per nulla banale innestare i sapori del tè nell'architettura di una birra. Questi due ingredienti erano i protagonisti della Xfumè, "prototipo" precedente, a cui la Xyauyù Fumé aggiunge il passaggio in botti di whisky di Islay. Anche qua, mi ripeto, non è esercizio per nulla banale uscire indenne da tale affinamento: troppo spesso le note di peated finiscono per soverchiare e appiattire il prodotto. Eppure il miracolo si compie.
Piatta e senza schiuma, il colore è un mogano suadente e aristocratico. La viscosità zuccherina si percepisce già roteando il liquido nel bicchiere, un nettare che vuole collocarsi nei luoghi più alti dello spirito e della meditazione dove abitano gli Sherry dolci e i Porto Colheita. La fusione fra le note del tè e della sua affumicatura, quelle torbate e salmastre del whisky, e quelle dolci e ossidate del malto è millimetrica: emerge il tè affumicato ma nessuna componente prevalica, l'equlibrio è perfetto, ed è un canto soffuso, una voce suadente, di eleganza cristallina ma mai algida, estranea a facili volgarità. Troviamo la prevedibile ciliegia sotto spirito, la marmellata di prugne, il melone charentais, miele di castagno e caramello, frutta secca e cioccolato al latte, con il tè che staziona nell'alto della cavità nasale. Al palato è dolce ma solcata dalla vena amara del tè, oleosa, con una alcolicità di 14% che pungola più che pungere. L'uso della botte è stupendamente misurato: una pennellata, il ricordo del camino e dello scoglio, ma sempre un passo indietro, di rifinitura. Chiude sempre sulle dolcezze, lunga, con un ritorno del tè che a me ha ricordato il fieno maturo.
Capolavoro, un instant classic che per quanto mi riguarda si pone ai vertici della produzione birraria mondiale. Quello che emoziona davvero non è tanto la complessità o la perfezione formale, che pure ci sono, ma l'idea generatrice che sta dietro a questa birra, una visione del prodotto intima e personale, realmente originale, visionaria e geniale. È un concept di bevanda che va oltre gli schemi, qualcosa di nuovo, una meta-birra che esprime una visione del piacere libera e quasi concettuale, intellegibile ma non immediata, che riesce ad andare oltre il palato, realizzata con una padronanza della tecnica birraria non comune. Costa parecchio ed è nata per essere centellinata, ma non sono soldi sprecati.