Simone Della Porta, talentuoso birraio campano, dialogando su Facebook riguardo a questa birra mi ha scritto: "L'ho vista fare. Rimontavano il lievito dal fondo alla superficie del fermentatore aperto con una nuvola di moscerini che danzavano. Alla mia domanda se non avessero timore della presenza svolazzante mi risposero con algido sorriso che erano trecento anni che producevano birra... Mi sentii più piccolo di uno di quei moscerini."
Mi avvicino a questa birra leggendaria come a una reliquia del mio passato birrario, memore del primo assaggio: versione 1999. Eravamo ad un concerto dei The Black Heart Procession e questo sconosciuto si voltò, strabuzzando gli occhi, sentendomi dialogare di un'introvabile acetica delle Fiandre, chiedendomi come diavolo potessi conoscerla: erano altri tempi, migliori ovviamente. Al successivo incontro in uno storico locale milanese mi suggerì questa birra di Harveys: l'impressione che ebbi fu quella di bere un bicchiere di petrolio. Se mai dovessi assaggiarlo, mi immaginerei proprio un sapore simile. Fu una bevuta impervia quanto grandiosa, pur rapportata all'esiguo campionario di assaggi dell'epoca. Una bevuta di valore assoluto, indelebile nella memoria. A 13 anni da quell'assaggio questo mio amico va ancora ai concerti, si dedica ancora alle grandi birre, e la Imperial Extra Double Stout non ha perso un briciolo del suo splendore.
Le Russian Imperial Stout, o più semplicemente Imperial Stout, sono uno stile nobile e molto amato, fin dai tempi degli Zar di Russia e della loro corte che ne furono grandi consumatori come suggerisce il nome. Vi dovete aspettare le caratteristiche di una stout, ma elevate all'ennesima potenza. Non hanno avuto negli ultimi decenni grande fortuna nella loro terra di origine, il Regno Unito, snobbate sia dal consumatore comune di birre leggere che dal cosiddetto pubblico degli "esperti", con etichette storiche scomparse e solo recentissimamente resuscitate. Altra storia l'epoca contemporanea, dove le Imperial Stout (barrel aged o meno) possiedono ampie frange di estimatori duri e puri che si rivolgono però prevalentemente a prodotti americani o nordici: interpretazioni dello stile piuttosto differenti dall'originale, dove l'amaro del luppolo (non necessariamente britannico) più che quello delle tostature la fa da padrone.
Questo piccolo capolavoro se ne esce da una bottiglia altrettanto affascinante, col suo collo lungo e il tappo in sughero: di quest'ultimo forse se ne potrebbe fare a meno, è di buona qualità ma non perfetto. Da qualche anno, col cambio di formato, se n'è andata anche questa meravigliosa bottiglia (male) e il tappo di sughero (bene).
È impenetrabile e senza schiuma. Il primo olfatto è dominato da note salmastre, intense, sopra alle tostature (ovvie) e a frutti rossi come la prugna o l'amarena sotto spirito. Densità e viscosità sono impressionanti e in bocca accompagnano un'esplosione di liquirizia, segnale che, in omaggio alla vecchia scuola, in questa birra non si è lesinato nell'utilizzo di tostature in ricetta, in particolare del tanto vituperato - nell'ottica contemporanea - malto black che restituisce, oltre a questa nota tipica di liquirizia, una vigorosa acidità quando si abbonda, e qui è molto evidente. La carrellata di tostature prosegue col caffè, la carruba, col catrame, mentre nel finale molto vinoso emerge il cioccolato al latte prima del ritorno della liquirizia. Inconfondibile la lieve nota brettata, animale. Il salato e il minerale sono evidenti anche all'assaggio, evolvono fino alla salsa di soia, unico segnale dei 12 anni che questa bottiglia si porta sulle spalle, neppure scalfita da alcuna ossidazione o da autolisi del lievito che portino alla carne in scatola. L'etilico e il calore si sentono, come è ovvio, ma senza pungere, e sul palato, triangolando con la rudezza delle tostature, l'effetto igroscopico è notevole. È un birra che respirando (cosa che NON va fatta nelle birre, tranne eccezioni come questa) continua a evolvere ed in mezzo a tante durezze di salmastro, tostature, liquerizia e acidità mi pare di scorgere addirittura un floreale, come di camomilla.
Birra ultratradizionale,
vintage e molto difficile, non per tutti i palati. Rispetto alle Imperial Stout più in voga al giorno d'oggi non ci sono spazi per le morbidezze del caramello, solo l'estrema viscosità e la ricchezza maltata si oppone all'amaro in cerca di un equilibrio, amaro che viene dal bruciato delle tostature più che dal luppolo. Non è quel genere di birra che cerca l'ampiezza e l'eleganza di molteplici sentori, al contrario si concentra su specifici territori gustativi per portarli al limite ed esplorarli nelle viscere più profonde. E ci riesce.
Resta un mistero il motivo per cui, fra le innumerevoli birre da circo che oramai affollano gli scaffali in attesa dei geeks più assatanati, nessuno si adoperi - per quanto mi è dato sapere - di importare un caposaldo come questo.
Imperial Stout buonissima, non LA più buona forse, ma con un coefficiente di originalità che la rende ineguagliabile e senza termini di paragone. Questo vale l'Olimpo.