Stile archetipico dell'informe e buzzurra categoria delle "doppio malto chiare", cioè quelle birre infernali che sembrano tanto leggere quando le bevi ma che alla fine tagliano le gambe, le Belgian Golden Strong Ale sono birre di successo nel panorama belga. Distinguerle dalle Belgian Tripel non è affare tanto semplice, anzi è una delle pietre filosofali dell'appassionato: questione di lievito, soprattutto, che nelle Belgian Golden Strong Ale lavora attenuando tutto il possibile lasciando una birra molto secca e alcolica ma dal corpo estremamente lieve, dove l'amaro trova un poco più di spazio, mentre gli esteri si manifestano più docili e meno esuberanti rispetto ad una Tripel e l'alcolicità, poderosa in entrambe, qui emerge più affilata. Duvel e Belgian Golden Strong Ale suonano come sinonimi, poiché lo stile è nato proprio con questa birra - la Duvel - e con il suo lievito che pare abbia origini scozzesi. Il birrificio, un colosso, negli ultimi anni ha purtroppo subito un evidente calo nella qualità del suo grande classico, sbarcato sugli scaffali un po' ovunque ma afflitto oramai da una espressività gustativa sempre più modesta ed asettica.
La Tripel Hop è novità abbastanza recente che insegue le tendenze luppolate contemporanee e si rivolge ad un consumatore curioso, se non sofisticato. L'idea è semplice: partendo dal canovaccio della Duvel classica, si calca la mano sui luppoli. Le prime versioni erano realizzate con una ricetta innovativa "standard", poi è stata rivista la formula e oggi viene prodotta con un luppolo "special guest" diverso ogni anno. Nel 2013 è il turno del Sorachi Ace, luppolo giapponese ultramodernista - ma molto buono, sia detto - che va ad inserirsi fra i classici Saaz e Styrian Goldings della versione base, svettando ampiamente.
L'aspetto è quello che della Duvel abbiamo imparato ad amare: colore paglierino e schiuma copiosa, fitta, marmorea, esemplare. Nonostante la bottiglia abbia qualche mese sulle spalle, l'impatto aromatico è ancora in tensione: il nerbo resinoso e tropicale del Sorachi Ace ha buon gioco sull'erbaceo e floreale dei due nobili europei, comunque limpidi nelle retrovie, imponendo le sue caratteristiche pinose, di mango e soprattutto quello che è il suo marchio di fabbrica, il cocco, insieme a quella nota balsamica di origano che è comune a tanti nuovi luppoli del Pacifico. È un naso complesso, cangiante, che si spinge oltre, fino allo sciroppo di ciliegia e di tamarindo, mentre il lievito emerge con l'estere caratteristico di casa Duvel, la pera williams, insieme alla mela verde. All'assaggio la secchezza ed il calore alcolico, sempre pungente, lasciano spazio ad un amaro fitto, ma elegante e mai deflagrante. Il carattere e la mirabile maestria tecnica nell'esecuzione non riescono però a supplire a quell'approccio algido che non pare più artigiano, smascherato da finale un po' corto, sterile, avaro di emozioni.