Lo sapete come sono i toscani! Oltre che “maledetti”, come diceva il tosco (pratese di nascita ma di origine tedesca) Curzio Malaparte, sono imprevedibili e un po’ matti. E nella vita possono mettersi i Indro Alessandro Raffaello Schizogene n testa di tutto, dallo scoprire l’America, come fece Amerigo Vespucci sino all’illudersi di governare e cambiare l’Italia a soli 40 anni come va facendo un tipo un po’ spregiudicato che si fa chiamare Renzi Matteo nato a Firenze.
E tra questi due estremi ci può essere di tutto, dal diventare il più grande giornalista della storia del giornalismo italiano, come è capitato a Indro Alessandro Raffaello Schizogene Montanelli, al passare alla storia come uno dei più grandi pittori e architetti italiani, Giotto, oppure mettersi in testa la strana idea di ripensare la formula del più celebre vino italiano nel mondo, Messer Brunello di Montalcino, solo perché la ricetta ed il disciplinare del Sangiovese in purezza andavano stretti e allora perché non addizionarlo di un po’ di bastardissime uve franciose?
Quando si è toscani, quando si è respirata aria toscana, si sono camminate la terra e le vigne toscane e, parafrasando Don Lisander, si è vissuti sotto “Quel Cielo di Toscana, così bello quand'è bello, così splendido, così in pace", si può addirittura pensare, operando nel cuore del Chianti Classico, nella sua zona più a sud che già guarda e annusa l’aria di Montalcino, ovvero in quella mirabilia di borgo che è Castelnuovo Berardenga, un posto dove Messer Sangiovese si esalta e dà risultati strepitosissimi, di utilizzarne una parte in un modo sorprendente.
Non solo traducendolo come fa l’esemplare azienda agricola di cui stiamo parlando, la Fattoria di Felsina, in vini memorabili, esaltazione della grandezza eleganza e forza del Sangiovese quali Chianti classico riserva Rancia, Chianti Classico Gran Selezione Colonia, il Super Tuscan Fontalloro, e poi Chianti Classico Berardenga e Berardenga riserva, ma, incredibili toscani!, come base di imprevedibili metodo classico.
E così, in quel posto dove dal 1966 Domenico Poggiali e poi il figlio Giovanni, nonché quell’umanista prestato al vino che corrisponde al nome di Giuseppe Mazzocolin, rendono onore come pochi altri fanno in terra toscana al Sangiovese, (ma voglio ricordare anche altri due loro vini memorabili non sangioveseschi, lo Chardonnay I Sistri ed il superbo Vin Santo), sempre con la collaborazione di quell’enologo galantuomo che è il veneto Franco Bernabei, dell’enologo cantiniere Stefano Rossi e di un enologo consulente ospite come Cesarone Ferrari, “medico condotto” del Franciacorta, a Felsina da qualche tempo si sono messi a produrre bollicine metodo classico.
Addirittura tre vini, che devo designare, sono VSQ, con la “parolaccia” spumante, un Brut, un Brut millesimato ed un Rosato. Vini testimonianza del connubio vitigno-terra che è “elemento imprescindibile della storia e del futuro di Fèlsina”, dove il Sangiovese gioca e si compiace di accompagnarsi a quote minoritarie di Pinot nero e Chardonnay.
Questo anche se “la salvaguardia e la valorizzazione del Sangiovese è la costante di un lavoro che dà senso alla parola tradizione” e, ancora, “la scelta di vinificare il Sangiovese in purezza, è scelta non solamente ideologica, ma consapevolezza maturata attraverso una lunga esperienza di lavoro e di sperimentazione, in cui il connubio vitigno-terra è un elemento imprescindibile”.
Voglio iniziare ad esaltare la follia tutta toscana, quindi lucida e visionaria il giusto, di Felsina, dimostrata con la scelta di entrare con propri vini nel mare magnum del metodo classico italiano (un contenitore ogni giorno più popolato e intasato, con vini prodotti dalle Alpi alle Piramidi, pardon, dalla Valle d’Aosta alla Sicilia) parlandovi del Brut Rosé, non millesimato, che ho degustato, in solitudine, senza condividerlo come faccio di solito con la mia Lei.
Una cuvée, mi ha raccontato Bernabei, formata per il 50% da Sangiovese, un 30% di Pinot nero ed un 20% di Chardonnay, uve provenienti da vigneti a Guyot con una densità di circa 5500 piante ettaro.
Il resto è tecnica usata con intelligenza, uve selezionate sofficemente pressate, mosto rimasto a contatto con le bucce per 24-36 , quindi decantato a freddo, travasato e fatto fermentare a temperatura controllata. “L’imbottigliamento avviene in primavera assemblando il vino nuovo con una piccola selezione dei migliori vini della precedente vendemmia, aggiungendo zuccheri e lieviti selezionati per avviare la presa di spuma. Trascorsi 32 mesi di rifermentazione in bottiglia si procede al dégorgement e colmatura con liqueur d’expedition”. E sboccatura, nel mio campione gentilmente concesso dalla Maison, risalente al febbraio 2014.
E poi la cronaca di una degustazione: colore rosa antico, leggermente ramato, più che buccia di cipolla, perlage ben sottile, fine e continuo nel bicchiere, e subito un naso che “parla” toscano: caldo, pieno, vinoso, con ciliegia e piccoli frutti in evidenza, agrumi, ma anche una nitida vena salata, minerale e un qualcosa che evoca la macchia mediterranea, la rosa di bosco e le erbe aromatiche. Un insieme elegante e fresco, di bella nitidezza.
Bocca ampia, larga succosa, vinosa, di buon peso, ma cremosa, di grande equilibrio e piacevolezza, con l’acidità del Sangiovese a dettare i tempi, lo Chardonnay a conferire corpo ed eleganza ed il Pinot nero a dare succosa struttura. Il tutto con grande equilibrio, la giusta secchezza, una bella coda lunga e un’ampia tessitura, per un vino che accompagna bene e sostiene il cibo, anche piatti di una certa importanza (pesce, ma direi soprattutto carni bianche come pollo e coniglio) e si bere in allegria.
E a dispetto di quel che diceva Malaparte, ovvero che “È certo assai più difficile perdere una guerra che vincerla. A vincere una guerra tutti son buoni, non tutti son capaci di perderla”, questa del metodo classico a Felsina mi sembra una battaglia (la parola guerra, di questi tempi, la risparmierei…) ampiamente vinta…