Una premessa indispensabile: non c’è nessuna “morosa” o meglio ancora “putea” nei dintorni a motivare il fatto che in breve tempo io torni ad occuparmi di un vino di questa denominazione, Gambellara, espressione di quell’uva meravigliosa che è la Garganega, che grazie ad una serie di produttori ispiratissimi rischia di dare del filo da torcere al più garganeghesco dei vini, ovvero quel classicissimo dei bianchi veronesi, veneti e italiani che è il Soave.
Nessun innamoramento, se non per questi bianchi, dalla provincia di Verona ci siamo spostati, pochi chilometri di distanza, in quella di Vicenza, che trovo spettacolarmente dinamici, pieni di energia, di una forza che definirei, a ragion veduta, vulcanica.
L’azienda, di cui oggi mi sento di proporre non un solo vino, ma ben due, si chiama Menti Giovanni ed è “un’azienda famigliare avviata alla fine del XIX secolo a Gambellara. Il fondatore Menti Giovanni, che fu il nonno dell’attuale proprietario (anche lui di nome Giovanni), iniziò col commerciare i vini che precedentemente produceva per il consumo personale della propria famiglia”.
E oggi ad affiancare Giovanni Menti, nella gestione di circa 7,5 ettari di vigneto coltivati a Garganega e Durella, siti nelle zone classiche collinari di Gambellara, il figlio Stefano, un duo che ha le idee ben chiare e cura tutte le fasi produttive, dalla cura del vigneto al processo di imbottigliamento (spumantizzazione inclusa) e ha scelto una conduzione delle vigne “ in regime biologico utilizzando il metodo biodinamico” e un operare in cantina dove “si prediligono lieviti spontanei e non si usano coadiuvanti enologici invasivi, per meglio mantenere la caratterizzazione del terroir dei vigneti”, posti su meravigliose terre saline e vulcaniche. Vini naturali e non interventisti davvero, dotati di un’integrità, di una purezza, di una verve da lasciare senza fiato.
Vini, questi due che vi voglio consigliare senza se ne ma, che avrebbero tutte le carte in regola per essere dei Gambellara Doc, ma che portano invece in etichetta la disarmata e orgogliosa dizione “vino volutamente declassato” a vino da tavola, per segnare una cesura netta e ribadita con forza con una storia passata e una gestione del Gambellara Doc che si traduceva in vini diciamo così con ben altre ambizioni che questi di Menti, di Cristiana Meggiolaro (di cui ho scritto recentemente qui), di Angiolino Maule, alias La Biancara, per citare alcuni nomi di spicco di questa new wave gambellarese.
Due i vini “del mio privolegio”, avrebbe detto Veronelli, entrambi Garganega in purezza, da terreni collinari di origine vulcanica, un 2013, denominato Riva Arsiglia, da vigne, cinque ettari e mezzo, che hanno da 29 a 79 anni, e un 2012, il nome è Paiele, da una vigna di un ettaro del 1976. Vini modernissimi, attuali, ma dal cuore antico, creati con una tecnica semplice e comune ad entrambi: “dopo la raccolta eseguita in cassetta, le uve portate in cantina vengono caricate in pressa intere e pigiate a 0,6 bar. La fermentazione avviene totalmente con lieviti naturali ed il controllo della temperatura. Successivamente, il vino viene lasciato fermo in vasca con i propri lieviti per almeno un anno. Imbottigliato senza stabilizzazioni”.
La resa del Paiele è 60 quintali per ettaro, che diventano 50 nel caso del Riva Arsiglia. I vigneti, ovviamente, sono a pergola vicentina, un antico sistema d’allevamento che dimostra di funzionare ancora meravigliosamente.
Cominciamo dunque il racconto di questi vini figli del vulcano dal più giovane, ma con una vita lunghissima davanti a sé, il Riva Arsiglia 2013, dodici gradi contro gli undici del Paiele, colore paglierino oro squillante, naso fitto, caldo, che abbina un carattere mediterraneo, solare, avvolgente, con note di pesca noce, pera, fieno e fiori secchi, agrumi, ad un coté misterioso e sotterraneo, minerale e calcareo, salatissimo, a comporre un insieme di grande intensità, ricchezza e freschezza.
L’attacco in bocca è perentorio, rigoroso, deciso, con grande sviluppo e terrosità, vinosità accentuata, grande consistenza, una pienezza da rosso e un retrogusto che evoca la rosa con una sensazione di uva appena raccolta e spremuta sotto il naso e poi fatta scorrere in bocca.
Il Paiele è una riduzione all’essenziale, all’osso, di tutte le sensazioni create dal Riva Arsiglia. Sarà l’anno in più, ed un’annata, il 2012, che mi sembra aver reso la quintessenza del pensiero vinoso dei Menti, ma questo Paiele 2012 è andato ancor più in profondità nell’assaggio parallelo, e ha suscitato nella mia complice, nella mia adorabile Lei che con vini del genere va a nozze, un’emozione ancora più scintillante.
Paglierino oro brillante, luminoso, traslucido, per un naso assolutamente salato, “ostricoso”, minerale alla quintessenza, con mandorla fresca e agrumi a scandire il ritmo, e poi sfumature appena accennate di pera, zucchero filato, mela candita, anice per un insieme leggiadro, elegantissimo, impalpabile.
E poi che bocca, mon Dieu!, asciuttissima, lama lunga diretta di terra, pietra e sale, sapore di sale, con un’acidità profonda che scava e incide, un’incisività, uno scatto e un nerbo che tolgono il fiato e ti fanno letteralmente volare. E tutto questo “solo” da due Gambellara, ma che dico da due “vini volutamente declassati”…