“Con la passerina le ho provate tutte: 50 quintali per ettaro, criomacerazione, sosta sulle fecce, vendemmia anticipata e ritardata, ma non c’è nulla da fare. Impossibile cavare il sangue dalle rape. L’unica è svolgere un compito ordinato”, mi dice
Simone Capecci, una quarantina di anni, più della metà dei quali in vigna e cantina.
Per quanto mi riguarda, Simone ha ragione, almeno se ci limitiamo all’Italia orientale (la piccola esperienza in merito mi fa dubitare che nel frusinate il vitigno possa dare qualcosa di più): dietro ad un nome simpaticamente evocativo, ma che in realtà deriva dalle ridotte dimensioni degli acini, si cela un semplice vino da tutti i giorni. E di conseguenza sbagliano, e non di poco, tutti quei consumatori che considerano la passerina l’altra faccia della medaglia del pecorino, vitigno quest’ultimo di notevole interesse, che dà vini complessi e che non temono gli anni, capace di dare ottime cose sia nelle Marche che in Abruzzo.
Ad ogni modo questa di Simone è una delle bottiglie più interessanti. Nitida, giocata ai profumi su note di pompelmo e lievi di lieviti (buccia di banana, biscotto) che però non scadono nell’artificioso (nessuna sfumatura medicinale), lievemente più erbacea al palato, fresca e semplice come deve essere. Dopo l’estate i lieviti se ne andranno e diventerà appena più floreale. Ottimo per chi dal vino si aspetta il ruolo di semplice “sponda” al cibo. E quando c’è poco da dire, è inutile continuare. 5 €.
