Falconero è una "famiglia" di etichette: la puoi trovare a tappo raso, ed è il tradizionale rifermentato in bottiglia, mentre questo "Zero" viene sboccato dopo almeno 24 mesi di riposo "a la volèe" e senza dosaggi. Anzi è orgogliosamente dichiarato il minimo contenuto di solfiti in etichetta - campeggia quel "39" che indica i milligrammi di solfiti per litro, assieme ad un altro centinaio di informazioni che il produttore ama mettere a disposizione del consumatore.
Ma è l'unica obiezione che puoi fare a questa clamorosa bottiglia lambrusca: vigorosa nella spuma, densa nell'aroma, schietta nel sorso.
L'uva - a prevalenza Grasparossa - è fieramente frizzante, con resti di spuma saldamente ancorati al bordo; è rosso serissimo, più carminio che porpora, anzi non distante da un certo viraggio aranciato, seducente. Poi il profumo, che ai frutti rossi aggancia il muschio e la terra delle rifermentazioni ancestrali, con un sagace termine che ricorda la grafite.
Ma il trionfo del Falconero è questo bere importante, che richiama alla mente salami e cotechini e gnocchi fritti, rutilante di scurezze e pur arrampicato sulle pendici scoscese di una altera, rustica eleganza. Ricorda mio nonno, mai visto senza il gilè e il cappello, alto, fiero, secco, burbero, imperioso.
Chiunque abbia il minimo, ne vorrà bere.