Nemmeno una parola da aggiungere all'epopea del Capichera, che da più di vent'anni è la versione epigrammatica dei vini sardi di pregio. Assaggiato ora rischia di apparire velatamente inattuale per spessore, architettura e anche per il non banale cartellino che sfiora i 30 europei in enoteca, che sono un bel pagare.
Da uve Vermentino allevate a rese che non si possono più considerare bassissime (60/80 qli) per una produzione di 110.000 flaconi, palesa senza falsi pudori un vigoroso abbraccio con il legno fin dal primo sguardo. Giallo giallissimo, caldo, dorato d'oro lucido e fresco, non declina di una virgola verso il bordo, che resta nero e vigoroso. Viscoso l'aspetto, con trama felpata, untuosa.
Il naso è densissimo: con le tracce zuccherine subito in prima linea, descritte da riconoscimenti prevedibili quali la banana, la pesca gialla, qualcosa d'altro di tropicale che pare ananasso. Senza respiro ecco i fiori, fiori vigorosi e sani come il glicine e aliti anche più verdi, di grosse erbe dei fossi impolverate e seccate dal sole. Poi la roccia arroventata dai mezzogiorni sardi, e infine la poderosa e onnipresente sciabolata legnosa, che accompagna fino al termine.
Il sorso replica per punti i brividi aromatici: da quell'attacco di schietta canna da zucchero fino all'ingresso dell'alcool scoperto e vivo, indispensabile a sostenere la callosità dell'incedere. La polpa è viva e succosa, generosa e larga: anzi, s'attende proprio il centro per palpare l'equilibrio così atteso. Nella seconda parte il sorso si fa quasi burroso, punteggiato di lumi brillanti. Il termine scorre, lontano, ma gravato da più di una appoggiatura.
Bicchiere che innesca domande.