Acciperbacco, come si cambia nella vita, come canta la Mannoia! Un tempo se mi avessero presentato un vino del genere, un uvaggio bianco prodotto nel cuore (bianco) della Toscana con due uve francesi e una non si sa bene se originaria del Vallese svizzero, con qualche legame con la vitis helvola dell’antichità, oppure proveniente dalla zona del fiume Avre nel vicino Chablais francese o, come amo pensare, vitigno autoctono della Valle d'Aosta dove è stata introdotta agli inizi degli anni 70, avrei urlato “Vade retro Satana!”.
Ideologicamente avrei rifiutato, anche se le Colline Lucchesi sono quella zona meravigliosa e unica che comprende Montecarlo, dove il conte Giulio Magnani, grande appassionato di vino e di vini francesi intorno al 1870 riportò da un viaggio in Francia barbatelle di Syrah, Sauvignon, Semillon, Merlot, Cabernet Franc, Cabernet Sauvignon, Roussanne Pinot bianco e grigio sulle quali si fonda l’incredibile biodiversità del Montecarlo Doc, un vino simile. Avrei avuto doppiamente torto.
Perché sarebbe stato un atteggiamento non laico e preconcetto, e un po’ stupido e soprattutto perché mi sarei perso un vino che non so se definire semplicemente “fuori dagli schemi” come lo chiama il produttore, che all’anagrafe fa Samuele Bianchi (chapeau Monsieur!) oppure geniale, strepitosamente stravagante. Comunque uno di quei vini, bevuto in apertura d’anno nuovo, che vorrei tanto “pescare”, a ripetizione per esserne soggiogato e stupito, in questo 2015.
L’ho detto, siamo nelle Colline Lucchesi, sulla collina di San Macario, a circa 5 km dal centro di Lucca, in un posto specialissimo, con solo due ettari e mezzo vitati che però, essendo in forte pendenza, sono coltivati a terrazze, il che riduce a circa 12.000 metri la superficie vitata reale, in un’azienda agricola da segnarsi sul memorandum con un cubitale “da seguire nel tempo”, che si chiama Il Calamaio.
Azienda che nasce nel 2003, l’anno del feroce caldo tropicale, quando il Bianchi (un parsifaliano “puro folle” e che Bacco lo benedica) pensò bene di rilevare una proprietà dismessa “per cercare di produrre vini che pur essendo espressione del territorio non fossero mai né scontati né prevedibili”, mettendoci, e qui un po’ di retorica la perdonerete, tanto lavoro e molta passione. Bianchi - di cui non so granché, l’ho incrociato di striscio al meraviglioso Mercato dei Vini organizzato dai Vignaioli Indipendenti Fivi a Piacenza, ma quel giorno, bestia che non sono altro, non mi sono fermato alla sua postazione a dialogare con lui, anzi ad ascoltare e capire - si mise a lavorava “duramente per recuperare le vigne vecchie (30/40 anni) che erano ormai abbandonate da anni, ma che non volevamo assolutamente perdere, consci dell’importante bagaglio eno-culturale che si sarebbe perso con esse”.
E oltre a recuperare queste vigne, lievito madre a base di vari vitigni autoctoni lucchesi/toscani ormai quasi scomparsi (barsaglina, mazzese, buonamico, colorino, etc.) da cui nasce l’Antenato e a produrre il Poiana, un Sangiovese in purezza da tre vigneti diversi con esposizioni diverse e cloni diversi di Sangiovese (quel Sangiovese che qualche anno fa a Montalcino alcuni incoscienti sembravano schifare e trattare con degnazione, con un becero provinciale spirito di sopportazione… ci tocca…), il Bianchi trovò posto anche per una piccola vigna di Merlot e soprattutto per impiantare alcune viti di Chardonnay e Petite Manseng (e, tenetevi forte, Petite Arvine, mais oui!) per dare vita ad un bianco particolarissimo. Tutte vigne con agricoltura in conversione a biologico.
Bene, il tempo passa, e noi si cambia, e se non lo si fa si resta fermi al palo, e le vigne sono cresciute, ma sono ancora giovanissime perbacco, tanto da poter dar vita ad un vino che presenta questo uvaggio: 60% Chardonnay 30% Petite Arvine 10 % Petit Manseng. Perdiana…! Terreno a base di argilla, limo e sabbia, esposizione est, allevamento a Guyot, vendemmia totalmente manuale, affinamento (Bacco la benedica Bianchi, solo in acciaio per 6/7 mesi sur lies con continui batonnages e niente legno!) per un vino che ha proprio il Soffio (si chiama così) dell’inconsueto.
E fa pensare a quella brezza, a quel vento del nord che nel meraviglioso Chocolat induce la più bella donna del mondo, Juliette Binoche, a decidere di partire alla ricerca di nuove avventure. Di nuova vita. Un “soffio di vento che accarezza le nostre vigne e mitiga il freddo invernale e la calura estiva”, è raccontato poeticamente in controetichetta.
Io una bottiglia di questo vino, unico, simile solo a se stesso, imparagonabile a qualsiasi altro abbia mai bevuto in vita mia (in qualcosa però mi ha ricordato il flamboyant Mas de Daumas Gassac bianco ottenuto da “25% Viognier – 25% Chardonnay – 25% Petit Manseng – 15% Chenin Blanc et 10% d’une collection de cépages dont le Courbu du Béarn, la petite Arvine du Valais, le Rhole de Provence, la Marsanne du Rhône et dix autres grandissimes variétés Européennes” da quel genio di Aimé Guibert, grande eroe di Mondovino ad Aniane in Haute Vallée du Gassac ad una mezzora da Montpellier, me la sono coccolata, bicchiere dopo bicchiere, in due serate, a casa. Non condividendola con nessuno/a, serbando gelosamente per me stesso tutte le sensazioni che mi regalava.
L’ho trovata, pur non disponendo purtroppo per i miei abbinamenti di quel “pesce alla brace, crostacei, conchiglie” cui Bianchi consiglia di maritarla, ma sì di formaggi misti di media stagionatura, emozionante. Unica. Impossibile da descrivere, e sarebbe più giusto che l’articolo finisse così, sulla fiducia, senza spendere parole che in ogni caso saranno inadeguate. Ma tant’é….
E allora proviamoci a rendere lo splendore di quel paglierino oro intenso e squillante, dai mille riflessi, un bouquet molto intenso, pieno, con frutta matura ma senza esagerare, pesca noce, albicocca soprattutto, pera, note che richiamano il fieno ed i fiori secchi, le erbe aromatiche, la mandorla e poi, imperiose, note saline quasi ostricose, salmastre, che evocano il mare, il sale, la pietra bagnata dal sole.
Il tutto in una cornice di freschezza mirabolante. Bocca che all’esordio ti taglia come una lama, di sole appunto, come un laser, precisa, asciutta, nervosa, scattante e poi ti conquista con la sua coda lunga e precisa, la sua persistenza lunghissima, un perfetto equilibrio tra frutto, acidità, che si fa sentire mon dieu, eccome, e ancora quella nota marina che richiama huîtres y mariscos, che ti stuzzica e titilla il palato. Con soavità e grazia, eleganza imperiosa, leggera… come un soffio…. Grande vino Bianchi, chapeau bas!