La logorrea delle denominazioni non s'arresta, la sovrapposizione è ormai un tornado fuori controllo: il consumatore divertito sorride di fronte alla creatività burocratica, attribuendo valore nullo alla ricerca buffa degli etimi. Mi sovviene il caso della nuova uscita autostradale tra Parma e Reggio, anelata per milioni di anni: ecco che nabbe (passato remoto del verbo nascere) la ridicola denominazione sintetica di Terre di Canossa, buona solo ad accontentare i bacini di voto di qualche poltronista di secondo piano.
Ecco allora questo Rimini DOP: non ci interesserà punto come viene accatastato. Invece s'apprezza il tono giallo debole, pallido all'orlo. La materia è retrattile, flessibile, senza appigli al vetro.
Naso: che trova subito piglio aromatico, caldo e bitorzoluto. Pesca gialla matura, mela cotta, cose così. Le freschezze si disperdono tra gli esiti roventi, la mineralità offuscata da quei toni lattei sdrucciolevoli.
Il sorso invece apre subito su vibrazioni verdi, acidule: eppure il sorso resta caldo e un po' piallato all'abbocco. Tira verso l'acme con un ritorno amaricante, sorretto da una mina alcoolica più vigorosa di quanto t'aspetti (12.5° di targa).
Finisce un po' anarchico.