Questa bottiglia è dedicata al basso autocrate transalpino, che quando passò di lì fece il suo solito, di apprezzare & rubare quello di bello che incontrava. Il vino di Donnas, un Nebbiolo ereticamente aggrappato ai fianchi della montagna, non la scampò.
Le piccole parcelle, le produzioni minime, l'ardito terrazzamento, le curiose architetture che proteggono le viti di Donnas fanno parte della mitologia: questa bottiglia invece va aperta e bevuta, e parlarne prima che sia finita è un problema serio tanto va via slenda e felice. Eppure non è un vino gaio, ma ombroso e ritirato, saldamente ancorato ad una visione arcana del mondo.
Allora eccolo più granato che rubino, e non troppo chiassoso all'occhio; svelto, ma anche sottilmente materico al vetro; scuro, montuoso, elegante e austero al naso. C'è più mallo di noci che frutto, c'è la frutta spiritosa, che quella sensazione di testa infilata in un cassetto di vecchie madie, dove hanno riposato farine, amaretti, spezie dolci. C'è una moca dimenticata, in fondo a quel cassetto, e c'è pure un vasetto di saporetto, di quello che si usa a ripienare i tortellini di Natale.
E poi l'assaggio. Se riesci ad indagarlo prima che la mano corra al bicchiere e ancora e ancora, è saggio all'abbocco, vibrante durante, esuberante al finale. Tannino come smeriglio calibro mille, alcool dritto come lamine, passo picchiettato con eleganza.
Bicchiere che unisce l'impegno e l'agilità, come non ci fosse un domani.