Il Trentino è, più che qualsiasi altra zona vinicola italiana, la terra dello Chardonnay. Sono tantissimi gli ettari vitati a questa varietà e in provincia di Trento si è realizzato un tale ambientamento di questa uva bianca che anni fa un personaggio (trentino di nascita) come il professor Attilio Scienza, ampelografo (ovvero studioso di viticoltura) di fama mondiale, arrivò addirittura a definirlo un “vitigno naturalizzato”, ovvero un vitigno che, anche se viene da altri territori, trova in questa regione, dove è ampiamente e perfettamente coltivato, condizioni ideali per la sua espressione qualitativa.
“E’ l’unico esempio in Italia, solo la Borgogna e lo Champagne, nel mondo, possono vantare le stesse condizioni”. Naturale quindi che con tutta questa abbondanza, sono 2865 gli ettari, in Trentino si lavori intensamente sullo Chardonnay sia realizzando vini fermi (affinati in legno ma soprattutto in acciaio, e nessuno di indimenticabile valore) sia utilizzandole come basi spumante per i metodo classico locali, i Trento Doc.
E pertanto con un panorama “chardoneizzato” del genere, che nelle sue migliori conosce una freschezza e una fragranza aromatica che la Franciacorta spesso se li sogna, alle altre varietà possibili restano spazi di espressione risicati. Poco, ancora meno che nella zona bresciana, il Pinot bianco, inesistente il Pinot Meunier e quanto al Pinot nero, con 250 ettari scarsi si trova sicuramente in posizione nettamente minoritaria nei vigneti trentini. In tali condizioni difficile pensare che una particolare tipologia di Trento Doc, il Rosé, che è basata sul Pinot nero (anche se in Franciacorta il disciplinare vigente dice che basta solo il 25% di quest’uva per produrlo) possa svilupparsi.
Eppure, anche se i Trento Doc rosé restano pochi, validi risultati piano piano si stanno ottenendo. Sia lavorando sul Pinot nero in purezza, come fanno ad esempio aziende come Balter, Maso Martis, Endrizzi, sia dosando il Pinot nero con quote diverse di Chardonnay, com’è nello stile di altre cantine quali Zeni, Pisoni, Letrari. A questa seconda scuola, quella della cuvée Pinot nero con un po’ di Chardonnay, in questo caso 80% di Pinot nero (una parte del quale vinificata in rosso) e 20% di Chardonnay, appartiene con il suo Trento Doc millesimato Rosé, annata 2009 in questo caso, anche un piccolo produttore (nemmeno ventimila le bottiglie) come l’Azienda vinicola del Revì di Aldeno, località nota come terra soprattutto da Merlot.
Una cantina nata nel 1982 per iniziativa di Paolo Malfer, che ha coinvolto successivamente moglie e figli, cantina il cui nome, Revì, deriva dal toponimo della zona di produzione; zona che secondo la leggenda era votata alla coltivazione di una vite dalla quale si otteneva un vino superiore, regale: il "Re vin", e che può contare su vigneti posti ad altitudini che variano da 210 a 450 metri di altezza. Produzione che definirei artigianale e molto curata, distribuita su quattro Trento, Brut, Dosaggio Zero, Paladino riserva e questo Rosé, disponibile in 3133 bottiglie e affinato 36 mesi sui lieviti, ottenuto con una pressatura soffice del mosto separato dai raspi e dalle vinacce, con un dosaggio di 8 grammi zucchero per litro.
Un buon Rosé di facile e immediato appeal, senza essere assolutamente banale o piacione: colore rosa pallido brillante con una leggera vena melograno molto bella a vedersi, perlage sottile e continuo e naso all’insegna di sapidità e freschezza, anche con un fragrante sviluppo floreale e di piccoli frutti rossi, bocca con bella tensione, dolcezza appena accennata e calibrata, gusto che ha sale, acidità, buon nerbo una bella vena fruttata che richiama lampone e ribes e finale abbastanza teso e persistente di buona piacevolezza ed equilibrio.
La dimostrazione che anche nella terra dello Chardonnay “naturalizzato” e diventato quasi trentino si possono produrre, lavorando con il Pinot nero, Rosé di buona personalità.