Un po' paura ti fa: quei sedici gradi mettono soggezione. Ti immagini la sferza rovente, ti immagini il calore. Mesci.
Nel bicchiere quest'
Attanasio è profondo, un rubino così sanguigno da risultare quasi blu. E Nero. E viscoso. E lucido. E fitto, fitto e lucido come ossidiana.
Poi l'alcool è un imperioso stacco, che annichilisce il frutto nella penombra ribollente. Lo cerchi, con impazienza: ma occorre tutto il tempo che occorre per trovare la confettura di mirtilli, la ciliegia maturissima, qualcosa di cotognata, la vibrazione - più che la sensazione - del marronglacè. E quel fulmine alcoolico che ancora accompagna.
Poi s'assaggia. E la carne ruvida sopravanza l'alcool, contenendolo come un dolce al liquore lo trattiene e lo nasconde, porta su l'armamentario tannico, ampio, facoltoso mai reboante. E poi il mistero. Il mistero gaudioso di questo tizzone d'inferno che invece resta poco nel bicchiere perché t'acchiappa, con il suo orlo dolce come sciroppo - ma è giusto l'intenzione di un attimo - e poi s'asciuga in vortici.
Bicchiere da prendere sul serio: a controbattere sughi rigati di note dolci o barrette di cioccolato nero e amaro.
Note sull'etichetta: il culto
dell'understatement.