Teobaldo Cappellano faceva parte di quella schiatta di uomini che amano quello che fanno, e lo fanno senza chiedere il permesso. Faceva il vino che amava: se piaceva bene, se non piaceva bene. Basta questo per iscriverlo alla categoria del mito.
Questo è uno dei suoi "secondi vini", curati e amati come gli indimenticabili Barolo.
Granato, ma ancora vestito di riflessi rubino, ha un profumo reboante di frutti neri, freschi e conservati, su cui si inerpicano felici frutti sotto spirito, e frutti rossi maturi. E in chiusura questa messe fruttosa trova una sua compiutezza in una riga d'inchiostro seppia, vira di colpo, lasciando spazio a convegni di amici di una certa età portando tabacco, cesti di selvaggina, abiti infilati nella canfora, impermeabili trattati con grassi.
Subito s'infila il sorso fumoso, ricco, succoso, in cui si insinuano tannini decisi ma non aggressivi, tracce di freschezze di cantina, la polvere magica del mito. Non sale ad altezze vertiginose, ma cammina spedito per sentieri di mezza collina, fino al termine che condisce con mano ferma e temperata, con il riverbero dei fuochi dell'alcool a spingere a lungo gli ultimi bagliori di un bicchiere che è più sole che ombra.