Appena aperto il Terre della Tosa, reperibile facilmente allo scaffale per meno di 10 pleuri, è una zaffata rovente di sciroppi di frutta alcoolizzati. Ti chiedi domande, perché e percome nel venti-dodici un vino così denso, quasi uno sciroppo. Fatichi a berlo: t'arrendi. Continui a leggere la dichiarazione "senza solfiti aggiunti" che qualifica tutte le buone intenzioni della casa piacentina.
Il giorno dopo.
Qualcosa si è perso di tutta quella ricchezza: il naso resta opulento, ma non è più smisurato. Frutti, cose cioccolatose, cose speziate; cose carnali, cose calde.
E poi un sorso carnoso, polpacciuto: irto di dolcezze intense e profonde, blu. S'arrotola, questo gutturnio, sull'orlo del bicchiere: s'affatica attorno alla frutta sotto spirito, senza trovare la via del volo.
Eseguito con la cura certosina e l'attenzione tipiche di questa Casa piacentina, si ferma ad una masticabilità che non fa amicizia con il mio gusto attuale.