Tutto del Barabba pare frutto di un consapevole, sofisticato percorso intellettuale: i colori dell'etichetta, i caratteri, la denominazione, il nome. Eppure tutto del Barabba risuona di mani callose e piedi pesanti di mota.
Il vigneto dalle cui uve nasce il Barabba è vecchio, ripido, rustico: in mezzo al bosco. Impervio, niente a che vedere con le vineyards a giardinetto. Pochi etti per pianta, poi legno e tempo.
Il rubino è sanguinoso, completamente lineare. Oscuro e impenetrabile, accenna appena a lasciare spazio alla luce. Verso il bordo, un'ombra viola. Pigmento e stoffa sul vetro, lagrime che guariscono subito.
Profondissimo l'olfatto, variegato e pure vasto: alcool presente fin da subito, inchiostrato di frutti maturi e conservati. RIconoscibile l'amarena sotto spirito, la prugna cotta.
Tutto il fitto corredo della dispensa a seguire: il caffè, il cioccolato, farina bianca, il legno ingegnoso. Le spezie.
Poi t'abbandoni all'assaggio, palato subito ostaggio dei tannini: acidità barbèrica disponibile a fiotti, grande ma non grossa. Poi un sorso lungo e teso, elettrico: terso di fiamme ancor giovanili. Diretto nel mezzo, magari più leggero nei toni gravi, scambia calore con il calore della bocca trattenenedo per l'ultimo quarto le piccanze e le artigliosità.
Finale dal declinare lentissimo e reticente. Ancor fresco e giovine.
Bicchiere eroico.
In magnum