Come si fa a non volere bene, professionalmente parlando, ad un lombardo di nascita, peggio ancora, varesino, parlo di Michele Satta, che trent’anni fa decide di cambiare radicalmente vita per spostarsi in quella parte della Toscana che all’epoca non era ancora diventata la terra promessa, l’Eldorado, il paradiso enoico che viene considerato oggi, parlo di Bolgheri, anzi della zona che guarda verso Castagneto Carducci? Ci voleva un bel coraggio, anzi una sana dose di incoscienza, iniziare affittando una piccola vigna con cantina e confidando che quei terreni ricchi di minerali avessero in sé tutte le potenzialità per consentirgli di ottenere dei vini di carattere.
Trovandosi in quella zona è ovvio che Satta finisse giocoforza per puntare, quando nel 1991, piantò il primo suo vero vigneto, sui bordolesi, ma contemporaneamente cominciò il suo studio sulla “capacità di eleganza e morbidezza che possono dare Sangiovese e Syrah in ambiente caldo e mediterraneo”. Uve raccolte in differenti epoche di maturazione, per primo il Merlot ultimo, subito dopo il Sangiovese, il Cabernet.
Fa così, decide di non scartare come hanno fatto altri in zona, l’opzione Sangiovese, che nello sviluppo della sua attività entrerà in piccole dosi in altri vini, il Bolgheri rosso e il Diambra ed il Piastraia, quando nel corso della vendemmia del 1990, mentre lavorava ancora con il vigneto in affitto scopre che anche nella Bordeaux (o California) toscana il Sangiovese poteva dare grandi risultati, che aveva stoffa da vendere, diversa e particolare, ma non meno valida, rispetto a quella delle classiche zone da Sangiovese toscane. E fu così che nacque l’idea folle, così venne giudicata da molti, di vinificare questo Sangiovese da solo, riconoscendogli la piena dignità di recitare da solista e di non doversi accontentare di un repertorio di secondo piano.
Dapprima l’affinamento avvenne in barrique, dopo qualche anno entrarono in gioco anche botti da 10 a 35 ettolitri, la formula attuale prevede la fermentazione in tini aperti di legno di quercia di piccole dimensioni, e la macerazione è effettuata con la sommersione soffice del cappello a mano, con il sistema della follatura per oltre venti giorni. Alla svinatura il vino viene messo nelle barriques dove sosta per dodici mesi. Senza essere filtrato, viene imbottigliato per riposare in vetro fino all’anno seguente.
Intendiamoci, ha perfettamente il genius loci e avendo raggiunto la considerevole quota di 30 ettari vitati e avendo coinvolto parte della numerosa famiglia in azienda, sa bene di trovarsi in Maremma, e quindi accanto a questo piccolo “gioco” del Sangiovese in purezza, denominato Cavaliere (dal nome della vigna) produce tranquillamente vini che vedono dominare i bordolesi, come il Piastraia, cuvée di Cabernet Merlot Syrah Sangiovese, oppure I Castagni, singolare mix di Cabernet, Syrah e Teroldego, un Syrah in purezza e si addirittura inventato un ottimo bianco, il Giovin Re, espressione del Viognier, ed una cuvée Vermentino – Sauvignon denominata Costa di Giulia. Il risultato, quando lo si beve, è un Sangiovese che mantiene il calore, l’ampiezza, l’espansione di una zona calda come la Maremma senza sacrificare la freschezza e l’eleganza di un Sangiovese da zone dotate di temperature meno elevate.
Un Cavaliere dotato di una bella intensità e densità di colore, un bel rubino carico squillante, profondo, e di un naso complesso e intensamente mediterraneo dove la ciliegia nera, la prugna, le erbe aromatiche, la macchia mediterranea (ginepro, pepe nero, alloro) si fondono con note terrose, selvatiche, di tabacco e cuoio e con una presenza del legno assolutamente discreta. L’attacco in bocca è largo, pieno, la struttura tannica è ben avvertita, bella la ricchezza del sapore, dove si colgono ancora aspetti terrosi, di cacao e liquirizia, con una persistenza lunga, una densità, una larghezza sul palato, davvero da Sangiovese di razza. Ma che dico: da Cavaliere.