Dite un po' quello che vi pare, sarà demodé, ingenua, sorpassata dai diktat della grafica pubblicitaria contemporanea, ma a me questa etichetta col monaco rubicondo che si trinca la birra piace molto, mi mette di buonumore e mi predispone positivamente. Un'estetica inossidabile negli anni quella di St. Bernardus, che mi ricorda la mia giovinezza birraria che si allontana pericolosamente. Un nome, quello di questo birrificio, che incute rispetto fra gli appassionati di lungo corso e - ahimé - sufficienza e snobismo fra gli amanti della nouvelle vague del luppolo.
Il birrificio è situato a Watou, in Belgio, in quel fazzoletto di terra magico delle Fiandre Occidentali a due passi dal confine francese famoso per i suoi luppoli e per alcuni capolavori birrari che qui hanno visto la luce. È il feudo dei trappisti di Westvleteren e delle loro birre, oggetto di culto per ogni birrofilo che si rispetti, monastero a cui St. Bernardus è intimamente legato avendo avuto dal 1946 al 1992 la concessione di produrre col nome St Sixtus le preziose ricette dei monaci.
Di sicuro è tutta farina del loro sacco questa Tripel, birra non presente nell'esiguo "catalogo" dei vicini trappisti. Stile paradigmatico, quintessenza dell'animo brassicolo belga, portato alla gloria dai monaci di Westmalle - ancora trappisti - che coniarono anche il termine. Non vuol dire tripla fermentazione come incautamente l'altra sera un bar manager spiegava ad un avventore: tutte le birre rifermentate in bottiglia - che peraltro di fermentazioni ne fanno due, non tre - sarebbero delle Tripel a questa stregua... Semplicemente i monaci in passato segnavano la birra più forte e alcolica scrivendo tre croci sulle botti, da qui il nome.
Nel bicchiere lascia esplodere una schiuma abbondante e fine, ma poco persistente. Di aspetto è dorata carica, con riflessi aranciati, velata. Al naso la nota trionfale è una fragrante crosta di pane, e se chiudo gli occhi penso a qualche Metodo Classico, poi miele d'acacia, banana, un lieve agrumato che più che limone mi porta al cedro, floreale e lo speziato del lievito. In bocca è abbastanza secca, come si conviene per le Tripel fiamminghe, di buona struttura e soddisfazione. È la dolcezza del malto a farla da padrone col luppolo dietro le quinte, a spalleggiare, ma - magia dei belgi! - l'equilibrio e la bevibilità non mancano e gli otto gradi alcolici non si ha idea di dove siano andati a finire. Persistenza non esattamente da record in quanto a lunghezza e complessità.
La si trova (anche) sugli scaffali di qualche supermercato a un prezzo civilissimo. In quest'epoca birrosnobbistica in cui se una bottiglia non è cool, costosa e introvabile, se non è uno strano siluro di luppolo-alcool pronto a fare esplodere papille e gengive allora nessuno ci fa più caso, questa birra umile e assolutamente godibile resta un'ottima gateway beer per tanti curiosi che volessero avvicinarsi al mondo brassicolo. Nonché un'efficace Cura Ludovico per tanti hop heads monomaniacali.