Alla scoperta della Riserva San Massimo e del suo riso Carnaroli

Siamo stati in questo luogo incontaminato immerso nel Parco del Ticino, nella Lomellina, una zona conosciuta per la sua tradizione di risaie. Qui, la coltivazione del riso si inserisce all'interno di un ciclo naturale che vede acqua, fauna e flora in perfetto equilibrio tra loro.

Quando si parla di riso la parola che non bisognerebbe mai dimenticare è “sostenibilità”. Un termine importante soprattutto in questo momento che vede – finalmente – una consapevolezza maggiore nei confronti della tutela dell’ambiente e, di conseguenza, anche del suo sfruttamento. Una realtà virtuosa che vogliamo raccontarvi è quella della Riserva San Massimo, un’oasi naturale che si estende per 800 ettari nel Parco del Ticino, di cui 200 coltivati a riso. E non uno qualunque: stiamo parlando infatti del Carnaroli, denominazione che, per legge, in Italia può essere utilizzata anche da varietà similari, ma che in questo luogo vede invece la sua coltivazione autentica. Non è un caso, quindi, che chef stellati tra cui anche Carlo Cracco e i fratelli Cerea lo utilizzino nelle loro ricette. Scopriamo perché.

Un habitat unico

Conservare l’integrità del paesaggio per garantire l’integrità del riso coltivato. È questa la filosofia che abbiamo visto messa in pratica all’interno della Riserva San Massimo. Si trova nella Lomellina, (area del pavese con una grande tradizione di risaie) ed è una zona protetta (anche dalla Comunità Europea, come Zona di Protezione Speciale) immersa nel Parco del Ticino: si caratterizza per il suo ecosistema particolare che sopravvive praticamente senza l’intervento umano, dove i pochi ettari di area agricola beneficiano di tutti i vantaggi di un territorio incontaminato, ricco di acqua – ci sono ben 44 risorgive naturali - di fauna e di flora che si autopreservano. In precedenza era una riserva di caccia privata, ora è una meravigliosa foresta naturale dove i daini e gli altri animali vivono liberi tra imponenti abeti, querce, olmi e alberi da frutto, come ciliegi, meli, peri, albicocchi. Insomma, un trionfo di natura che include nel suo ciclo anche il riso. Un esempio? Alla fine della raccolta sono solo i chicchi perfetti a essere confezionati e destinati al commercio. Gli scarti – sempre attorno al 50% –  però, saranno ugualmente mangiati: anche se non entreranno in nessuna cucina, serviranno a nutrire la fauna selvatica, diventando così parte integrante dell’equilibrio di questo ecosistema.

Riso 100% Carnaroli

A custodire i segreti del riso della Riserva San Massimo è Dino Massignani, ex guardia forestale con mamma mondina: è con il suo arrivo nel 2005 che si è sviluppata l’azienda agricola di cui ora è direttore e appassionato divulgatore. Le varietà che si trovano sono tre: l’autentico Carnaroli (anche in versione integrale) il Rosa Marchetti e il Vialone Nano. “Coltivare Carnaroli in purezza” ci dice Dino “significa fare una scelta precisa, mettendo la qualità del prodotto al di sopra di ogni cosa”. Questa tipologia di riso è considerata tra le più pregiate e senza nessun dubbio la migliore per i risotti, in quanto esalta la cremosità del piatto grazie a due importarti fattori, come ci viene spiegato: “Il primo è la tenuta in cottura, il secondo è l’alta percentuale di amilosio. Questo è molto importante perché più amido rilascia il chicco, più si ha un assorbimento dei sapori e una omogeneità nel piatto”. Secondo la legislazione italiana, però, possono essere etichettate (e quindi vendute) come Carnaroli anche varietà succedanee, tipo Carnise, Karnac, Keope che hanno costi inferiori e rese superiori a quello originale. Un distinguo che non è presente in etichetta. È per questo che sapere da dove ha origine la materia prima è fondamentale. E la preparazione di un ottimo risotto non può che cominciare da un ottimo campo.

Come viene coltivato

La coltivazione all’interno della riserva rispetta quella che è la sua biodiversità. Come ci spiega Massignani, nei campi dopo il taglio vengono lasciate le stoppie, ovvero i residui del precedente raccolto che servono a concimare in modo del tutto naturale il terreno durante l’inverno. Verso aprile/maggio vengono piantate le nuove sementi – che sono certificate dall’ENSE, l’Ente Nazionale Sementi Elette – che vedranno completa maturazione verso la fine di settembre, quando si inizia la raccolta, che può durare un mese, un mese e mezzo a seconda della quantità di prodotto. I numeri di quest’anno? Dai 73 ai 75 quintali di chicchi per ettaro. Ma come si capisce il momento esatto per tagliare le piante? Il chicco deve raggiungere una percentuale di umidità del 30%, per questo le temperature calde sono un problema.

Il caldo, nemico del riso

È un dato di fatto che il riscaldamento globale sia un’emergenza, tanto da entrare sia nel dibattito pubblico che nelle agende politiche. In un’oasi naturale come questa ci sono stati dei cambiamenti nel corso degli anni? E se sì, quali? Dino Massignani non ha dubbi a riguardo, l’innalzamento della temperatura si tocca con mano. “Negli anni ‘80 e ‘90 il Carnaroli veniva seminato i primi di aprile e tagliato a ottobre. Adesso la semina viene ritardata di un mese, quindi i primi di maggio e si taglia quando il chicco raggiunge la giusta percentuale di umidità, sperando che non avvenga i primi di settembre perché ciò significherebbe che c’è stato un gran caldo”. Una maturazione veloce implica un prodotto finale non perfetto.

L'essicazione: un metodo gentile

Per poter essere conservato e poi venduto, il riso (o meglio risone, quello grezzo) deve subire la fase dell’essicazione, per abbassare ulteriormente il livello di umidità. Un momento delicato per il quale, però, la legge italiana prevede ancora l’utilizzo del gasolio, un combustibile in realtà poco idoneo. Qui, invece, ci si avvale di un moderno impianto di essicazione con scambiatore termico a metano, che ha tre principali vantaggi: 1) Risparmio energetico 2) Il chicco non entra in contatto con le esalazioni del combustibile 3) La procedura è lenta e ciò permette la conservazione delle proprietà organolettiche del chicco.

Un riso naturalmente "fresco"

Sappiamo che è una definizione impropria, però ci piace descriverlo così. Il riso, infatti, dopo essere stato raccolto rimane nei silos per 2/3 mesi, solo in seguito viene lavorato e confezionato sottovuoto e in atmosfera protettiva, senza ossigeno, ma in azoto, un gas che non interagisce con il prodotto, che mantiene tutte le sue proprietà organolettiche e nutrizionali fino all’apertura. Una volta aperto, non trasferitelo in altri contenitori (tipo barattoli di vetro), ma lasciatelo nella sua confezione in cui sopravvive l'azoto. Il consiglio di Massignani è quello di consumarlo nell'arco di 20 giorni, in quanto il riso non ha ricevuto nessun trattamento chimico. A confezione integra, meglio mangiarlo tra i 3 e i 5 mesi, ma si conserva perfettamente per due anni. Farne una scorta, quindi, non è un problema.
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