La storia incredibile del Global Seed Vault, il granaio hi-tech delle Svalbard

Vicino al Polo Nord c’è un ipertecnologico deposito dove sono conservati milioni di semi: è una banca genetica da cui ripartirà l’agricoltura. Ma sinora l’Italia ha donato solo 2 colture

Sembra un’astronave arrivata da chissà dove e chissà cosa c’è dentro, incagliata nel ghiaccio e abbandonata, simile a quelle che si vedono nei film della saga di “Alien”. E però non è un’astronave, non è di origine aliena, non arriva da chissà dove e cosa c’è dentro si sa: è un deposito di semi, un granaio ipertecnologico. Un granaio gigantesco: al momento contiene oltre 1 milione di tipi di colture, arrivate da tantissimi Paesi diversi, anche se sarebbe in grado di ospitarne sino a 4,5 milioni (più o meno 2,5 miliardi di semi).

È lo Svalbard Global Seed Vault, in italiano l’Arca (la cripta, il deposito) di Semi delle Svalbard, un’enorme struttura costruita a inizio 2008 sull’isola di Spitsbergen, appunto nell’arcipelago norvegese delle Svalbard, a poca distanza dalla cittadina di Longyearbyen, che è la città più a nord del mondo e ha una popolazione di circa 2mila persone. Siamo a un migliaio di chilometri dal Polo e il Vault è stato pensato, progettato e realizzato per salvare l’umanità da una catastrofe (no, non solo quelle immaginate dalla fantascienza), per conservare semi da tutte le parti del mondo, così da fare ripartire l’agricoltura qualsiasi cosa accada, riproducendo la diversità delle colture presenti sulla Terra. Con “qualsiasi cosa accada”, i progettisti intendevano proprio qualsiasi cosa: il Vault dovrebbe durare almeno 1000 anni ed essere in grado di resistere a tsunami, attacchi militari, tentativi di irruzione ed esplosioni nucleari. Forse anche all’impatto con un asteroide.

Chi l'ha fatto, a cosa serve

Interamente finanziato dal governo norvegese, con la collaborazione del Fondo mondiale per la Diversità delle colture e l’aiuto di generose donazioni private, come quella (circa 750mila dollari) della fondazione di Bill Gates e della moglie Melinda, il Vault è stato pensato come “piano B” contro la possibile perdita del patrimonio genetico tradizionale delle principali colture del Pianeta, dal riso al mais, dalle patate alle mele, passando per frumento, noce di cocco e così via.

I semi di ogni coltura vengono donati dai vari Paesi, anche nel loro stesso interesse, e conservati come fossero nelle cassette di sicurezza di una banca: chiusi e sigillati in quattro strati di sacchetti isolanti, vengono catalogati, archiviati e messi via sino a quando sarà eventualmente necessario riutilizzarli. Nel senso di tirarli fuori dal Vault, spedirli nel loro Paese di origine, piantarli nel terreno cui appartengono e appunto fare ripartire la coltivazione di quel particolare tipo di semenza. L’idea è che se qualcosa andasse perduto, per una guerra, per una qualche catastrofe ambientale, per il disboscamento, non sarebbe perduto davvero e per sempre, perché all’interno del deposito norvegese ce ne dovrebbe essere una copia. Come un backup, ma di una cosa vera.

Com’è fatto (fuori e dentro) il Global Seed Vault

Dall’esterno, il primo impatto con il Vault è piuttosto spiazzante. Non se ne vede quasi nulla, eccezion fatta per la passerella che conduce all’enorme portone d’ingresso, sormontato da un’opera d’arte che ormai è diventata un’icona: si chiama “Perpetual Repercussion” ed è stata realizzata con la fibra ottica dall’artista norvegese Dyveke Sanne.

Quel che conta, succede all’interno: la struttura si estende per oltre 100 metri dentro a una montagna, infilata sotto al permafrost, protetta da muri di roccia spessi fra i 40 e i 60 metri. I depositi, che vengono aperti in media 3 volte l’anno, stanno in fondo: sono 3 stanze di 10 metri per 27 (al momento in cui scriviamo, solo una è occupata dai semi), con 6 metri di soffitto e dove la temperatura sfiora i 20 gradi sotto lo zero, quella giusta per conservare senza far germogliare. Per arrivare a questo livello di freddo, favorito dalle condizioni climatiche locali, ci sono impianti di congelamento alimentati dalla corrente elettrica che parte da Longyearbyen, oltre ad alcuni generatori d’emergenza. Perché se il Global Seed Vault deve resistere a “qualsiasi cosa”, figuriamoci se non resiste a un blackout.

Che cosa c’è dentro, come è stato usato, come verrà usato

A oggi, nel deposito ci sono donazioni arrivate da quasi 90 istituzioni, che rappresentano oltre 1160 codici genetici di quasi 6500 specie di piante, per un totale di quasi 1,1 milioni di semenze. Dentro c’è un po’ di tutto, ma di tutto davvero (l’elenco completo si trova sul sito del Global Seed Vault): pure la tribù dei cherokee, la più grande fra quelle dei nativi americani, ha donato 9 tipi di semi diversi, compresa una variante del mais considerata sacra. Dall’Italia, come ci ha spiegato Åsmund Asdal, uno dei coordinatori del Centro di Risorse genetiche NordGen, che gestisce le attività del Vault, “ci sono 2 tipi di mais donati dal Giardino Botanico dell’Università di Pavia”, e però “abbiamo molte altre semenze che non sono state depositate direttamente dal vostro Paese, ma che sono di origine italiana”.

Come detto, lo scopo del Vault norvegese è di funzionare come una banca (anzi, pure meglio): conserva i semi al sicuro e li restituisce in caso di necessità. Nell’ultima dozzina d’anni, è successo solo una volta: nell’autunno del 2015, rappresentanti dell’Icarda, un centro per la ricerca agricola che ha una delle sedi nella città siriana di Aleppo, hanno fatto richiesta per avere indietro alcuni campioni di frumento, orzo ed erbe del deserto. Nel Paese infuriava (e infuria tutt’ora) una violentissima guerra civile, il deposito dell’Icarda era stato invaso dai guerriglieri e le loro semenze erano andate distrutte. Perdute, se non ci fossero stati i backup alle Svalbard. Meno di 2 anni più tardi, a inizio 2017, dall’Icarda hanno provveduto a saldare il “debito”, facendo un nuovo deposito degli stessi semi.

Al di là di questo, il lavoro all’interno di questo granaio hi-tech non manca: alla fine di agosto è incominciato un esperimento sulla vita dei semi che andrà avanti... per i prossimi 100 anni. È realizzato in collaborazione con l’Istituto di Genetica delle piante della città tedesca di Seeland, che ha fornito le prime 5 colture  (grano, orzo, piselli, lattuga e cavolo) da cui è partito lo studio, cui nel corso degli anni se ne aggiungeranno altre 9: per verificarne la longevità e la resistenza allo scorrere del tempo, saranno ibernate utilizzando l’azoto liquido, che dovrebbe rallentarne sensibilmente l’invecchiamento, e poi scongelate periodicamente ogni 10 anni. Sino al 2120, più o meno.

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La questione della temperatura

C’è un piccolo “però”, in questo quadro apparentemente perfetto, idilliaco, insieme bucolico e hi-tech, una variabile i cui effetti sono difficilmente calcolabili: l’azione dell’uomo. Ovviamente. Il problema è la temperatura: in alcuni giorni dello scorso luglio, alle Svalbard si sono superati i 21-22 gradi e il permafrost è a rischio scioglimento; in Siberia, dove il suolo è simile, è andata pure peggio, con punte addirittura di 38 gradi. Quanto è grave? Parecchio: d’estate, nella zona della Norvegia dove si trova il Vault, dovrebbero esserci 5-8 gradi, e quota 21 non si toccava da oltre 40 anni. Di più: secondo le previsioni (anche del World Economic Forum), nei prossimi 50-100 anni le temperature medie potrebbero salire anche di 7-10 gradi a causa delle emissioni di gas serra. Questo avrebbe chiaramente conseguenze anche sulla stabilità e sull’efficienza del deposito di semi, che è stato costruito dove è stato costruito anche perché s’immaginava che il freddo naturale lo avrebbe aiutato a funzionare meglio.

Già nel 2016, proprio a causa dello scongelamento del permafrost che circonda la struttura, fu necessario spendere circa 20 milioni di euro per riparare i danni provocati da allagamenti e infiltrazioni d’acqua: “Negli anni successivi, fra 2018 e 2019 - ci ha ricordato Asdal - è stata realizzata una nuova condotta per smaltire l’acqua in eccesso. Crediamo che la struttura sia decisamente preparata per affrontare il futuro”. Perché il Global Seed Vault  è stato progettato per resistere a qualsiasi cosa, pure all’azione dell’uomo...

Emanuele Capone si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova, è nella redazione Web del Secolo XIX e scrive di alimentazione, tecnologia, mobilità e cultura pop.

Immagini di apertura e articolo Stock shots Svalbard Global Seed Vault

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