I fratelli Storchi e la rivincita del Lambrusco

Vi raccontiamo la storia di una cantina che è anche la storia di due fratelli che fanno il vino in Val d'Enza, terra tra la provincia di Parma e quella di Reggio Emilia. E del loro Lambrusco parla anche il Financial Times.

Una storia, e una famiglia, emiliana

Adelio Storchi, detto Delfo, commerciava in bestiame, in bovini, sopratutto. E aveva anche la passione per i cavalli, che tramanderà ai figli. Amava i cavalli da trotto, una specialità molto italiana, tutta giocata sull’educazione del cavallo e del rapporto con il driver.

Come molte famiglie rurali della pedemontana agricola reggiana, Delfo possedeva un podere: un piccolo appezzamento di terra con varie coltivazioni, tra cui gli immancabili filari di viti lambrusche, una stalla con cinque o sei vacche e due maiali. Una sintesi tipica dell’humus agroalimentare dell’Emilia più sincera: il latte per la produzione del Parmigiano Reggiano, i maiali per i salumi della tradizione, il vino fatto in casa e destinato all’autoconsumo.

Adelio sposa Ivana e insieme danno vita a una delle tante saghe familiari di questa terra generosa e sanguigna: tre figli maschi che prendono strade diverse ma che si ritroveranno molti anni dopo in uno stesso punto, i fiumi delle loro vite ancora intrecciati attorno ai prodotti della terra.

Paolo, il primogenito, con la vocazione della terra, si dedicherà allo studio della zootecnia ma per quegli strani incastri della vita non parteciperà all’avventura vinicola; Marco - detto Eddy per la sua evidente somiglianza al ciclista Merckx - al conservatorio per una carriera da musicista con la tromba; Gianni invece prende la strada dei numeri e si diploma ragioniere.

I ricordi di gioventù sono fitti di vendemmie, di piccole vinificazioni, dei profumi dei mosti in cantina e delle tecniche ancestrali di vinificazione, con la presa di spuma spontanea nelle bottiglie scure del lambrusco: pietra miliare del futuro progetto di cantina, legato a una memoria indelebile e un approccio rispettosissimo dell’uva, con pochi o nessun intervento “tecnologico” in coltivazione e in cantina.

La vita per la famiglia Storchi non è priva di sommovimenti: i fratelli perdono la madre troppo presto. Marco per una complicazione polmonare deve abbandonare l’esercizio della tromba e si dedica all’insegnamento, mentre Gianni non sente il richiamo della partita doppia e si applica nel settore della grafica prima e delle nuove tecnologie dopo, in una piccola ma solida agenzia web.

La nuova avventura è in...cantina

L’idea di mettersi a fare “vino da vendere” prende luce a seguito di uno studio effettuato sui terreni di proprietà, adiacenti al fiume Enza che dà il nome alla valle. Terreni che risultano ottimi proprio per la coltivazione della vite e che fanno immaginare vini generosi, intensi, comunicativi.
Marco e Gianni, con una giusta dose di incoscienza, impiantano barbatelle di vitigni tradizionali locali e si lasciano affascinare da qualche varietà internazionale, sostenuti dall’eccellente qualità dei terreni.

Gettano il cuore oltre all’ostacolo e allestiscono in un fabbricato quasi in centro alla ridente cittadina di Montecchio Emilia una cantina artigianale: spazi strettissimi, fatica e lavoro di braccia, ma il fuoco di una passione alimentata anziché sopita dalla difficoltà della sfida incendia la loro avventura.

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La vita nell'attuale cantina Storchi

Il (non) Lambrusco dei fratelli Storchi

Il loro primo vino, il Pozzoferrato, prende il nome dal quartiere dove lavorano. Sono gli anni eroici nei quali il nome Storchi inizia a circolare tra gli appassionati, sulle ali di un vino rosso frizzante innestato nella più pura linea reggiana: scalciante, esuberante, inebriante.

È uno dei protagonisti della rinascita del Lambrusco, la nouvelle vague di questo vino amatissimo e maltrattatissimo nello stesso tempo: quel Lambrusco che lascia le grandi tirature e la garanzia di risultato delle produzioni in grandi recipienti – le rifermentazioni in autoclave con il metodo Martinotti, per i più esperti – e cavalca la storica verità della presa di spuma in bottiglia. Una tecnica che avvicina molto al metodo ancestrale e ne conserva la sincerità, assommandosi alle moderne conoscenze e alla consapevolezza contemporanea.

Il Pozzoferrato per le curiose vie labirintiche delle denominazioni enologiche non può essere chiamato Lambrusco, e rientra nella più ampia DOC del Rosso Reggiano, ma aderisce in modo quasi “classico” ai modi di produzione post bellici: la biodiversità allora non era una scelta filosofica ma quasi una necessità colturale. E nel vino confluiscono uve Salamino, potenti e profumate; Ancellotta, di schietta impronta reggiana, scure come l’inchiostro; Maestri, forse il più intenso tra i vitigni lambruschi; e infine un po’ di Malbo Gentile, rotondo e aromatico. Eppure questo vino lambrusco è, nel cuore e nell’anima, "lambruschissimo": scuro, screanzato nella spuma dai toni porpora, quasi fucsia; profumato di frutti e di terra bagnata; sapido e prolungato, carezzevole nei tannini e quasi stordente nella cremosità della spuma.

Pozzoferrato è un vino “spesso” ma versatile: se funziona magnificamente con il cibo più reggiano che c’è, gnocco fritto e salame, fronteggia con carattere i primi della cucina del territorio. Cappelletti, tortelli, lasagne ma anche i cotechini e il lesso.

La produzione è contenuta assai: 9000 preziose bottiglie nelle annate “larghe”, molte meno quando il meteo non è del tutto favorevole. La scelta “naturale” in vigna infatti si paga nella lotta alle fitopatologie che spesso lasciano ferite laceranti nella produzione.

I riconoscimenti e la nuova vita artigianale

Qualche anno fa il grande balzo in avanti: forti dell’apprezzamento del mercato e della letteratura enologica che li premia con un seguito e un affetto senza soluzione di continuità, Marco e Gianni decidono di mettere mano all’antico podere di famiglia; ristrutturano quindi la vecchia stalla, il fienile e le rimesse per mettere a terra i tini d’acciaio che garantiscono una migliore qualità della vita in cantina, al vino e ai cantinieri. Le presse soffici, le diraspatrici, i frigoriferi sono il trampolino di lancio per una nuova vita altrettanto artigianale, altrettanto rigorosa ma anche più consapevole e programmatica.

Tutte le uve sono coltivate in regime biodinamico, senza alcun intervento chimico sulle vigne. La vinificazione avviene con metodi naturali, con l’innesto di lieviti indigeni ottenuti nella cantina stessa con il pied-de-cuve – tecnica di fermentazione spontanea di un campione di uve dello stesso vigneto – ridottissima aggiunta di solforosa e nient’altro, né filtrazioni né chiarifiche.
Il controllo della temperatura garantisce la stabilità del processo e un maggior governo del risultato finale, aderente alla ricerca ossessiva della pulizia espressiva e del nitore, quasi un ossimoro quando si tratta di lambrusco rifermentato in bottiglia. Ma se da un lato non si è perso il carattere sgomitante ed ematico del Pozzoferrato delle origini, oggi parlare di sobrietà ed una certa rurale eleganza delle ultime annate non pare fuori luogo. Assieme a una sorprendente longevità, che travolge il luogo comune del lambrusco da bere nell’annata: l’assaggio del Pozzoferrato di tre-quattro anni è oggi un’esperienza, ammesso che ne rimanga.

Gli altri vini

A fianco del campione di casa Storchi escono poi altre etichette che ai più parevano eretiche, all’atto della loro apparizione. Erano molti increduli di fronte a dei “bordolesi” allevati nel greto di un fiume a carattere torrentizio nella campagna emiliana. E furono proprio gli increduli a gettare sguardi allampanati dopo l’assaggio di questi che alla cieca non sfigurerebbero in ben altra compagnia.

Braje, un uvaggio tipicamente bordolese di merlot, cabernet franc e sauvignon in cui il carattere dei tre aristocratici vitigni è tratteggiato con la forza espressiva del territorio. 3500 bottiglie circa ottenute da viti a bassa resa, vinificato in acciaio e riposato per 12 mesi in barriques. Schiettamente reggiano, ma capace di confrontarsi con i grandi piatti classici della cucina nazionale.

Perivana (nella foto) è il ricordo della madre: Cabernet Sauvignon in purezza, da viti a bassa resa. Vinificato in acciaio e affinato per 18 mesi in barriques. Un vino denso di sensazioni larghe e profonde, avvolgente del profumo e travolgente nel sorso, sapido, teso e attraversato da una linea tannica composta ma ben scolpita. Perfetto anche con piatti di selvatico, in poco più di 2000 bottiglie.

Neroduva “è la scommessa” per citare le stesse parole dei fratelli. Ottenuto dalle uve lambrusche Ancellotta e Malbo ma appassite in fruttai nello storico fienile, è sulla carta un azzardo, nella realtà un progetto riuscito. Poche centinaia di bottiglie di liquido dal cuore oscuro, impervio alla luce. Denso ma privo di indulgenza zuccherina, una vera e propria sintesi di reggianità. Si beve con formaggi di lunga stagionatura, o carni potenti a lunga cottura.

Storchi oggi è una realtà con venti vendemmie alle spalle, oltre a quelle mitiche della gioventù, e racchiude tutta l’epica della rivincita del Lambrusco. In un bicchiere si trova la forza e il coraggio, e la sfrontatezza, che chiunque abbia a passare per queste terre può trovare nella sua gente.

Testo e foto di Stefano Caffarri

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