Gli effetti della Brexit, ecco perché gli inglesi rischiano di restare senza frutta, verdura e medicine

Dal 2021 il Regno Unito è fuori dall’Ue: il governo avverte i negozi di fare scorta di merci ed è pronto a schierare la Royal Navy contro i pescatori francesi

Oltre 4 anni di trattative e negoziati, dall’ormai celebre referendum del 23 giugno 2016 in avanti, che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea. Oltre 4 anni di colloqui, confronti, ipotesi di accordo, bozze di accordo, accordi fatti e poi sfumati nel giro di una notte, ma adesso ci siamo: il 31 dicembre 2020, terminato il periodo di transizione, il Regno Unito dirà davvero addio all’Ue. Con un accordo in extremis oppure senza, cosa che a oggi sembra decisamente più probabile. 

È la cosiddetta Brexit No-Deal (appunto, senza accordo), che potrebbe avere, e molto probabilmente avrà, conseguenze importanti non solo a livello politico, ma pure sulla vita delle singole persone, toccando aspetti di cui sinora si è parlato poco o pochissimo. Come la disponibilità di cibo e medicine, per esempio.

Il costo del cibo e la mancanza delle verdure

Sono soprattutto 3 i punti su cui i negoziatori di Bruxelles e di Londra sono bloccati da tempo: le leggi sulla concorrenza e sul commercio, la pesca e la competenza dei tribunali nell’eventualità di problemi legali da un lato e dall’altro del confine. Qui sul Cucchiaio ne scriviamo ovviamente in relazione ai primi due aspetti.

Alla fine della prima settimana di dicembre, il governo inglese ha invitato i titolari di supermercati e le grandi catene di distribuzione a fare scorta e ad accumulare il più possibile le merci, agendo come se per i successivi 3 mesi non potessero procurarsene altre. C’è timore che gli approvvigionamenti non arrivino più in Gran Bretagna? No, o comunque non solo. C’è però il timore che impieghino più tempo ad arrivare e soprattutto la certezza che costino più di prima. Principalmente per due motivi.

Al momento ci sono oltre 8.300 aziende di autotrasporto (per la precisione, 8.348) che si occupano di spostare le merci da un lato all’altro della Manica: in caso di No-Deal, oltre tre quarti di queste si troverebbero di colpo senza le autorizzazioni necessarie per varcare i confini e continuare a lavorare, lasciandone attive solo 2088 (il dato arriva dalla Conferenza europea dei Ministri dei Trasporti) e riducendo di oltre tre quarti le capacità di approvvigionamento del Regno Unito. E visto che il Paese importa, giusto per fare qualche esempio, oltre l’80% della frutta e della verdura fresca, il 100% delle olive, il 99% degli spinaci, il 92% di pesche e albicocche  (cifre e percentuali arrivano dal database della Fao), questo potrebbe decisamente essere un problema. 

Che avrebbe ovvie conseguenze pure sui prezzi dei prodotti, banalmente per l’effetto della legge domanda/offerta. Questo è il secondo problema, quello del costo della merce, che dall’1 gennaio sarà probabilmente gravata pure dai dazi perché la Gran Bretagna sarà “fuori” dall’Europa: da un lato, i consumatori sono spinti a comprare il più possibile adesso nel timore di dover pagare di più dopo; dall’altro, i supermercati stanno cercando di stringere più accordi commerciali possibile adesso, di portare più merce possibile nei magazzini, più o meno per lo stesso motivo.

Già in questi giorni, a Calais e soprattutto a Dover, a un lato e all’altro del canale della Manica, le code di migliaia di camion carichi di merci, in entrata a in uscita dal Paese, hanno toccato i 20-25 chilometri. E col passare dei giorni, con il periodo delle feste natalizie e l’avvicinarsi della fine dell’anno, è probabile che la situazione vada peggiorando.

Il rischio è che succeda quello che abbiamo visto succedere anche in Italia la scorsa primavera, durante la prima ondata di coronavirus, con le persone che cercheranno di accumulare grandi quantità di generi alimentari di prima necessità e non deperibili (e non solo). Lasciando appunto vuoti gli scaffali dei supermercati: “Sarà peggio che a marzo”, ha detto ai giornali inglesi Andrew Opie, numero uno della Brc, che può essere considerata la Confcommercio britannica e online sta da tempo aiutando le aziende in queste difficile transizione.

Navi da guerra per difendere i pescherecci

Poi c’è la questione delle medicine, e soprattutto del vaccino (o dei vaccini) contro il coronavirus: di nuovo, il governo ha invitato i fornitori di questi prodotti a farli arrivare sull’isola in grande quantità e sta individuando siti sicuri e segreti dove conservare le scorte. Sei settimane di scorte, nelle intenzioni.

Infine, la questione della pesca. Qui il problema è che quello che sino a fine dicembre era mare comunitario, a nord della Francia, a sud, a est e a ovest dell’Inghilterra, da gennaio diventa mare francese, inglese, norvegese, con confini ben precisi da non valicare. E oltre i quali non pescare. In parole povere: i pescatori francesi non potranno entrare nelle acque territoriali britanniche e viceversa. Vero: la pesca rappresenta appena lo 0,1% del Pil del Regno Unito, ma il suo “peso” è soprattutto politico, simbolico. Talmente tanto che nei giorni scorsi il governo di Boris Johnson si è detto pronto a difendere i suoi pescherecci schierando addirittura la Royal Navy. Proprio così: 4 navi da guerra da 80 metri e circa 14mila militari che fanno parte dell’equipaggio sono pronti a entrare in azione, pure ad arrestare chiunque violi i confini.

Con un problema dentro al problema: nel 2016, in Gran Bretagna la pesca è stata uno dei punti forti della campagna per il Leave, con i pescatori stanchi del sistema di quote comunitarie (un po’ come gli agricoltori italiani si lamentavano per la questione del latte) e le tante comunità costiere che hanno votato per lasciare l’Ue; e però, con una Brexit No-Deal adesso quegli stessi pescatori rischiano di trovarsi tagliati fuori dal mercato europeo. Che è grande e pure importante, visto che molta parte del pesce pescato da loro viene esportato (sì, arriva anche in Italia).

Nei giorni scorsi, i pescatori olandesi hanno ammesso candidamente che negli ultimi anni hanno sempre pescato in quelle che presto diventeranno acque inglesi, e che da gennaio non sapranno come fare. Ad aggiungere complicazione, la mossa della Norvegia: il Paese non fa parte dell’Ue ma è dentro al See, lo Spazio economico Europeo, e il governo di Oslo è preoccupato da eventuali “sconfinamenti” britannici nelle sue acque. Così preoccupato da avere minacciato di chiuderle, probabilmente con la forza, almeno sino a quando non si arriverà a un accordo trilaterale per la gestione del mare del Nord. Ma visto che Bruxelles e Londra nemmeno riescono a parlare fra loro, figurarsi se hanno tempo di negoziare pure con Oslo…

Emanuele Capone si è formato professionalmente nella redazione di Quattroruote, dove ha lavorato per 10 anni. Nel 2006 è tornato nella sua Genova, è nella redazione Web del Secolo XIX e scrive di alimentazione, tecnologia, mobilità e cultura pop.

Immagine apertura Getty

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