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Raccontare il vino è più difficile, più impervio di raccontare gli uomini, soprattutto se la storia degli uomini è reboante, romantica, proteiforme come quella dei Pelizzatti Perego da Sondrio. Il cantastorie infatti potrà ricamare alati elzeviri, funamboliche iperboli, adamantine metafore per raccontare la vita intermittente di questi vignaiuoli per vocazione, per generazioni.
Basterebbe ricordare il singhiozzo durato 10 anni che ha fermato le gramole ed ha riposizionato l’anno zero di una cantina che esiste, solidamente, dal 1860. E che quindi può legittimamente confondere storia e tradizioni nei propri annali. Invece ArPePe come la conosciamo inizia nel 1984, quando – ricominciando – il patriarca Arturo in preda alla furia degli innamorati non riesce ad arginare il richiamo della vigna: e con una cantina di fortuna, con pochi ettari rimasti, schiaccia e fermenta, e sacramenta, con idee chiare. Il vino buono si fa con uva e tempo.
Arturo, i tre figli che vanno e vengono presto contagiati dalla febbre del Nebbiolo, e con gli anni come mattoncini si disegna l’epopea di questo Rocce Rosse, una riserva confinata agli anni migliori, alle vendemmie perfette. Rocce rosse è il terreno al cuore del Sassella, la zona più aspra e romatica della Valtellina vinicola, con i suoi terrazzi, le sue pendenze omicide, le sue rese omeopatiche.
Totale, raccontare la storia diventa quasi un vezzo, quando si hanno di fronte trent’anni di bicchieri che parlano, e tanto, da soli. Dall’epico 1984, il vino della rinascita glorioso anche se affaticato, fino all’imberbe 2007, prelevato dalla botte, lontanissimo dall’essere pronto ma già comunicativo.
Una verticale fatta di sfumature, come se dall’alto di una rupe confinata da una parete al sesto grado si guardasse giù, diritto: e solo piccole discontinuità, cenge scabre e cigli sottili ne violassero l’integrità: Rocce Rosse è una colata lavica d’ossidiana, priva di incertezze, che garantisce una linearità ed una affidabilità superumani. Tratti comuni: eleganza austera e ritirata, forza sottotraccia, scosse telluriche appena avvertibili, elettricità tesa sul sorso ed inesausta, insondabile soavità.
Discendendo nel ventre del tempo trovi annate monumentali come il ’90 e l’01, altre più accoglienti come il ’02, segnali nel tempo come 95,96 e 97. Pietre miliari, strabilianti per vitalità e ancora attuale freschezza come il ’90.
Dietro il banco il trio PePe osserva il folto pubblico, le facce stupite, un po’ come gli acrobati che sanno fare il quadruplo salto mortale guardano in basso, accogliendo l’attesa meraviglia. Ma con una leggerezza di tratto perfettamente descritta dal tinnìo dei bicchieri.
Se si tratta di questo, per una volta possiamo tacere di note e sentori, ed ascoltare: la parola al vino. E ci basta.
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