Ci sono due Genova nella mia vita. La prima brutta sporca e cattiva: quella che vedevo dai finestrini dell'auto passando così vicino alle finestre delle case che vedevo cosa i genovesi stessero pocciando nel caffelatte per colazione. Era una città impermeabile alla mia curiosità, riottosa e chiusa. Una specie di Lego montato da bimbi troppo competenti, troppo bravi a riempire ogni spazio. Poi c'è la seconda Genova, quella che ho scoperta qualche anno fa: quella che sa di vicoli, di mare stagnante e di ferro vecchio. Certo, ancora riottosa e chiusa, e per nulla estroversa. Ma bella, bella della bellezza arcana delle cose che hanno deciso di non aver più bisogno della grazia per essere irresistibili.
Tra tutti, gli angoli più ribollenti di genovesità sono sul fronte del porto, dall'altra parte dell'ineluttabile sopraelevata. Che tutti ed ognuno sognerebbero di abbattere sapendo di non poterlo fare, come pensare di tranciare l'aorta ad un infartuato.
Di là il Porto Antico: non sempre bellissimo, anzi spesso acciaccato di
pachouli turisticizzanti: ma che lascia intendere un abbraccio della città dal sapore
blues. Lì ci sono i
Magazzini del Cotone dove quest'anno è andato in onda
TerroirVino. L'incotro tra vino, persone e web, dice.
Mica avevo voglia d'andarci: ogni consesso di più di due persone mi pare un assembramento, piùdi tre una folla. A quattro è canaglia (
la canaille). Poi qualcosa è scattato: forse una pennellata d'affetto da qualche
amico-di-twister, forse una lubrificata all'ego incessantemente in cerca di spazio. Forse la cortese ma ferma determinazione di
Filippo Ronco -
deus ex machina - a portarmi sul Golfo.
Sono andato, domenica, e ho pensato di portare un piccolo contributo alla
Vinix Unplugged Unconference, di cui tutti sanno tutto. Ho parlato del racconto di un bicchiere fatto con le immagini. Per condividere senza rete questo mio modo slabbrato e obliquo di vivere il vino con le parole. Dieci minuti fitti di tre delle mie cinque passioni: la musica, le parole, il vino.