É stata una fantastica occasione, quella offerta da una recente degustazione milanese, un grande banco di assaggio di una quarantina di aziende, organizzata dal Consorzio che si occupa, bene, di promuovere questa denominazione in grande ascesa, per avvicinarsi, in punta di piedi, con una grande volontà di capire (per me più che una degustazione è stato un seminario, un itinerario di conoscenza, un eno-apprendistato) a quella cosa solare e misteriosa, baluginante e splendente, che sono i vini dell’Etna. Ancor più una sorta di “pellegrinaggio” enoico per me, considerando che in anni 58 sulla “Muntagna”, come la chiamano i catanesi, il sottoscritto confessa (con vergogna) di non aver ancora mai messo piede. E non vede l’ora di ritagliarsi finalmente qualche giorno di tempo per avvicinarmi con umiltà e curiosità estrema, senza alcun tipo di arrière-pensées, aperto totalmente all’esperienza, a quello che sono ormai in molti a considerare come uno dei terroir in grado di esprimere vini tra i più caratterizzati e fiammeggianti di personalità.
In questa degustazione milanese, dove mio eno-Caronte era il catanese Stefano Alfonso Gurrera, penna raffinatissima, ho deciso, pur assaggiando qualche rosso base Nerello (strepitoso il Nerello Cappuccio di un classico come Benanti) di concentrare la mia attenzione sugli amati rosati (e ne ho trovati almeno tre di buoni, uno su tutti il Millemetri di Feudo Cavaliere) e soprattutto sui vini bianchi. Che io, scolaro in pieno apprendistato, considero le gemme della produzione vinicola sul Vulcano.
Vini verticali, salati, dotati di un nerbo straordinario, dove è la terra, pardon, la pietra lavica a “parlare”, vini che intercettano in pieno il mio gusto, che esaltano il palato, che si fanno bere meravigliosamente. Vini che hanno complessità e mordente, vini dove il frutto è solo un elemento complementare di una ricchezza indescrivibile che viene dalle profondità. Che è espressione della forza della Natura e della sua capacità di farsi vino. Tra i vari bianchi che mi hanno “folgorato” quello di un’un'aziendina a conduzione familiare giunta alla terza generazione, la seconda della quale ha ristrutturato i terreni di proprietà, interamente reimpiantati a vigneto, situati a 760 metri di quota, in contrada Carpene, una delle 133 contrade etnee dove si fa vino. Parlo della Tenuta Monte Gorna che prende il nome da uno dei crateri spenti che circondano l'Etna e che tracciano il profilo del versante sud-est del vulcano. I vigneti sono impiantati a Nerello Mascalese, Nerello Cappuccio per la produzione dell'Etna rosso e a Carricante e Catarratto per la produzione dell'Etna bianco, e sono situati tra i due crateri spenti Monte Gorna e Monte Ilice, sono circondati da boschi di querce e castagni e da una moltitudine di ginestre, con il mare di fronte e, alle spalle, la silhouette dell'Etna.
L’azienda è collocata all’interno del Parco dell’Etna, versante Sud/Est ed i vigneti vengono coltivati da oltre dieci anni con il metodo dell'agricoltura biologica certificata, in totale assenza di fitofarmaci, “sono cinti da possenti terrazzamenti di muri in pietra a secco che rappresentano la memoria storica di un paesaggio rurale antichissimo. Il terreno, formatosi dal disfacimento della lava, è sabbioso, ricco di scheletro, di sostanze organiche e minerali. La vicinanza dei vigneti ai boschi e la forte escursione termica tra il giorno e la notte favoriscono una perfetta maturazione delle uve”. Il terreno, inutile dirlo, è vulcanico, sabbioso, ricco di scheletro e sostanze organiche, sistemato a terrazze, spalliera, allevato a cordone speronato singolo con sesto di metri. 2,20 x 0,85, e questo Etna bianco vede “collaborare” alla sua riuscita Carricante per il 60% e Catarratto per il 40% con una resa di 70 quintali per ettaro. Nella vinificazione niente di speciale, solo un periodo di criomacerazione per 24 ore dopo la pigiatura, fermentazione in acciaio, dove il vino si affina per tre mesi sulle proprie fecce fini.
Il risultato un bianco elegantissimo, sinuoso, colore paglierino luminoso, un naso che è un’esplosione di fiori, di ginestre e gelsomini, fiori d’arancio e agrumi, nocciola e poi una vena di mandorla fresca e poi sale e pietra, pietra e sale a comporre un insieme di grande intensità e pulizia inebriante. La bocca, con un gusto ben asciutto, secco, deciso, nervoso, una splendida acidità è un trionfo della terra che si fa vino, con salda struttura, ricchezza di sapore, un’ampiezza quasi burrosa eppure un andamento verticale e preciso come una lama. E ancora pietra e sale, e ricordi di mare, una punta salmastra, una piacevolezza e un equilibrio totale. E una bevibilità assoluta. E una voglia di Etna, del primo abbraccio con la “Muntagna”, incredibile…