In principio fu lo Skunky e per i fedelissimi della prima ora il nome è sempre quello, immutabile nel tempo, una parola d'ordine per riconoscersi nonostante siano passati più di 15 anni. Per tutti quelli che sono arrivati dopo è il
Lambrate, locale e birrificio che qualsiasi appassionato di birra italiano è tenuto a conoscere e possibilmente ad amare.
Nato nel 1996, con la primissima ondata di pionieri dell'artigianato italiano, è uno dei microbirrifici che ha scritto la storia del movimento nazionale. Da sempre produttore di birre di carattere e ben fatte, la qualità ha subito una forte impennata una manciata di anni fa grazie ad una razionalizzazione dei ruoli nel birrificio. Il nuovo corso ha affiancato alle produzioni storiche, comunque in parte rivisitate, nuovi prodotti stagionali che hanno riscosso immediatamente un grande successo, al punto che alcuni sono divenuti fissi. Il florilegio di nuove idee pare non arrestarsi, al punto che è quasi abitudine oramai trovarsi di fronte qualcosa di nuovo e sconosciuto alle spine: una creatività che pare affondare nel comprensibile desiderio dei birrai di rompere la routine creando qualcosa di differente ma che talvolta può spiazzare e ridondare un poco.
La Magut è una di queste stagionali del nuovo corso, oramai in auge da qualche anno subendo subito cotta dopo cotta sostanziali affinamenti. Il nome, come da abitudine, richiama la tradizione locale meneghina: per i non milanesi, come si desume dall'etichetta, significa muratore. Possiamo definirla una Italian Pils, termine che può apparire roboante, controverso, contestato e contestabile, ma che io mi sento di supportare. È ancora arduo in Italia parlare di stili autoctoni: certo, abbiamo le birre alle castagne, molte produzioni con cereali e ingredienti originali, abbiamo esempi crossover di birre prodotte con mosto d'uva, ma sono stili un po' di nicchia, che non hanno in molti casi il potenziale per raggiungere il grande pubblico e di sicuro rappresentano una piccola frazione della produzione totale. Quando ci si confronta con gli stili classici, quelli da bancone e da vera bevuta, in Italia si parla sempre di reinterpretazione, difficilmente di veri e propri stili nazionali, che stentiamo a coniare vuoi anche per la mancanza di luppoli italiani, un ingrediente cruciale a questo proposito.
Il modo italiano di fare Pils, pur con un numero di esempi limitato, ma in continua crescita, a mio modo di vedere è stato in grado di ricavarsi un'identità distinta da quella di altre nazioni, riconosciuta, replicata e di successo sul mercato. Diversi esperti stranieri, assaggiando le Pils italiane, parlano apertamente di Italian Pils: non vedo per quale motivo non dovremmo farlo noi italiani, prendendoci una licenza riguardo all'usuale inclinazione autolesionista. Le caratteristiche comuni a queste birre sono un corpo mieloso, più vicino alla rotondità delle Pils boeme che alla secchezza di quelle tedesche, ed un amaro e (soprattutto) un'aroma di luppolo molto più ricco e intenso rispetto alla norma, che invade il palato e domina il retrolfatto. Spesso, a tal fine, i birrai italiano utilizzano la tecnica del dry hopping, la luppolatura a freddo in maturazione, procedura che non è prevista nelle interpretazioni tradizionali dello stile. Sono quasi sempre birre non filtrate e lievemente velate, più simili alle Zwickel/Kellerbier che alle Pils comunemente intese.
Queste caratteristiche le ritroviamo perlappunto nella Magut, una delle migliori Italian Pils del panorama nazionale. La velatura della prima cotta di quest'anno è un po' più accentuata, la schiuma fitta e persistente da manuale. È una tipologia di birra per la quale non vale la pena stilare una sfilza di aggettivi e descrittori improbabili: sono session beers, vale a dire birre da bere, senza eccessivi patemi d'animo. La chiave di lettura sta tutta nell'equilibrio fra il miele d'acacia del malto e l'amaro erbaceo e speziato dei luppoli tedeschi, e nella piacevolezza e carattere di questo equilibrio che sarà necessariamente spostato verso la luppolatura. L'edizione di quest'anno, alla sua prima giornata in spinatura, mi è parsa appena più gentile, con la consueta secchezza ed il finale amaro che esige subito un altro sorso. La cifra di queste birre infatti è la piacevolezza, che va calcolata con la durata del boccale: ho dovuto affrettarmi a scattare una foto perché il bicchiere stava svanendo troppo velocemente, il che dice tutto. Qualche accenno di mela golden e una lieve banana si aggiungono in sottofondo, nella pulizia complessiva dell'esecuzione.
Birra di maestosa semplicità e assoluto ed essenziale piacere da bere possibilmente in loco, al brewpub di Via Adelchi, uno dei pub migliori al mondo dove l'allegra confusione e quell'inimitabile atmosfera wild renderà la vosta Magut ancora più buona.
