Gira che ti rigira tira, molla, meseda quando si ragiona su quali siano in Italia i grandi vitigni bianchi autoctoni identitari, rappresentativi e simbolici di un territorio, dopo che hai messo sul piatto Fiano d’Avellino e Greco di Tufo, Verdicchio, Vermentino, Catarratto, Timorasso, Vitovska e Malvasia Istriana, (su un gradino leggermente più basso Arneis, Falanghina, Nosiola, Ribolla gialla e qualche altro) l’altro pezzo da novanta che devi assolutamente tirare fuori e che nessuno può mettere in discussione è la Garganega.
La grandissima uva da cui nasce quel classicissimo dei bianchi veronesi, veneti e italiani che è il Soave, ma anche, dalla provincia di Verona ci siamo spostati, pochi chilometri di distanza, in quella di Vicenza, la matrice di uno dei bianchi italici dotati del potenziale più grande, pienamente esplorato non da tantissimi anni, ovvero il Gambellara.
Qui la Garganega viene spesso presentata al maschile e grazie ad una serie di terroir ancora più complessi, se mai fosse possibile, di quelli dell’universo infinito e meraviglioso del Soave, esprime vini di una profondità e di una mineralità più esasperata e petrosa, che fanno andare fuori di testa quelli come me – e ovviamente come la mia misteriosa e meravigliosa Lei che questi vini adora e berrebbe a secchiate – che quando trovano la pietra nel vino, o un vino che sembra pietra liquida esclamano eureka, ecce vino!
Oggi voglio raccontarvi l’emozione suscitata da un cru di Gambellara, vigne, a pergola, di 40 anni, con esposizione sud - sud ovest a 300 metri di altezza, che porta in etichetta l’annata 2010 e che noi abbiamo gustato, delibato, trovato fenomenale, a gennaio 2015.
Innanzitutto, prima di dirvi di come si chiami l’azienda agricola, piccola, 4 ettari, parliamo del terroir, quello di Roncà, posto nel Parco della Lessinia a 35 chilometri ad est di Verona, lembo estremo della provincia di Verona che confina con la provincia di Vicenza e fa parte della sua diocesi.
Un borgo il cui nome sembrerebbe derivare dal latino runco o runcare, ovvero "disboscare", "rendere coltivabili terre incolte", che conta su un Museo dei fossili dell’Eocene medio superiore, ovvero 40 milioni di anni di anni orsono, e dove testimonianza della presenza di antichi insediamenti è stata confermata dal ritrovamento di preistorici attrezzi da lavoro.
Bene, in questa terra da Durella (il vitigno ricco di acidità da cui nascono metodo classico di una bellezza che non ti aspetteresti) abitata da roncadesi, una coppia di ardimentosi che si sono posti come obiettivo di lavorare con la massima naturalità per produrre vini di eleganza, freschezza e, manco a dirlo, mineralità, bianchi che sono “sintesi della forza maschile dei terreni e dell’eleganza femminile della Garganega”, che loro vedono come uva femmina e non come uva maschia, ha creato la piccola azienda agricola che prende il nome da lei, Cristiana Meggiolaro, mentre lui all’anagrafe fa Riccardo Roncolato.
A Roncà i due hanno un ettaro, giovanissimo, piantato nel 2009, allevato a Garganega ovviamente, su terreno vulcanico con basalti di colata filoni e camini di lava. Mentre tre ettari, più uno in affitto, li hanno in un lieu dit che vorrei veronellianamente camminare, Taibane, da cui ricavano, con la collaborazione dell’enologo Federico Curtaz, che conobbi parecchi anni fa mentre era in azione da Monsù Angelo Gaja, il Sarò Gambellara classico e il Recioto di Gambellara Maestà, e soprattutto questo vino da sballo, un Gambellara cru, denominato Ceneri delle Taibane, nome riferito alle ceneri di un vecchio vulcano spento, a suoli ricchi di lave e pietre di tufo.
Una vigna di 40 anni di età media, dalla resa contenuta in 50 quintali ettaro, su cui fanno un ulteriore selezione per tirare fuori qualcosa di speciale, un bianco fermentato e affinato in acciaio, a contatto con le fecce fini, la cui annata 2010, ancora in commercio, mi/ci ha lasciato senza fiato.
Un vino che il produttore suggerisce di abbinare a tutti i piatti a base di pesce e a formaggi di media stagionatura, ma che Lei, che ha una sensibilità tutta speciale (altrimenti non mi amerebbe), vi consiglia di abbinare a preparazioni a base di anguilla, al branzino alla piastra e, parola sua, che l’ha mangiata negli States, all’aragosta all’americana, oh yes!
Paglierino oro carico il colore, ed un naso di sensazionale complessità, profumato di striature di mandorle, torrone, zucchero filato, di fieno e burro di montagna, che poi aprono la strada a sfumature di pesca bianca e glicine, e al trionfo di pietra e sale, con incisività ed eleganza.
La bocca è freschissima, scattante, eppure ampia e carezzevole, di gran nerbo lungo e preciso, con incredibile ricchezza di sapore, meravigliosa armonia e coda lunghissima e un perfetto bilanciamento di acidità, frutto, sale e tanta pietra.
Insomma, per dirla con il grande poeta spagnolo dell’Ottocento Gustavo Adolfo Bécquer autore di un verso memorabile caro ad Eugenio Montale e da lui scelto per aprire la seconda parte delle sue Occasioni, “I mottetti”: Sobre el volcán la flor…